Avvenire, 9 dicembre 2022
Gaber, il cantattore
Mi fa male il mondo. Ma fa ancora più male, da quando Giorgio Gaber non canta più. E sono trascorsi già vent’anni dall’addio del Signor G che ha salutato per sempre il primo giorno dell’anno 2003. Per capire in profondità la grande bellezza di quella straordinaria testa di “cantattore”, appartenente a un tempo in cui c’era ancora il pensiero, basta semplicemente ripercorrere il primo decennio del suo viatico artistico, arrivando fino alla stagione 1971’72, quella che lo vide mattatore in tv al fianco di Mina, in Teatro 10.
In quel primo decennio getta le fondamenta del palco in cui, fu il leader della fronda rivoluzionaria del teatro-canzone. Un ’68 permanente quello a cui Gaber è sempre rimasto infinitamente grato. Davvero formidabili quegli anni, specie quelli della formazione e della scoperta, 50 anni fa, da parte dell’uomo, ancor prima che dell’artista, che la Libertà è partecipazione: un brano inno del 1973. Libertà non è star sopra a un albero, anche se Gaber, pure nell’aspetto fisico, era un albero. Una pianta sempre verde, sociale nell’approccio, quanto unico e stirneriano nel sentire la vita e il suo tempo. L’era del Signor G. che come gli fece notare il suo mentore Sandro Luporini, «quella G non sta mica per Gaber, ma per gente, grigio...», e aggiungiamo noi, anche per Genio. Una genialità anarchica del Giorgio Gaberscik, nato, nel 1939, da famiglia di origine triestina, ma cresciuto, in quella Milano da scighera e di ringhiera che non c’è più. Anzi sì, ma sopravvive nelle foto di Ugo Mulas e nelle canzoni della generazione del Signor G. La sua storia comincia in via Landonio, al civico 28, zona Sempione, a due passi dalla Rai. Un piccolo Manè Garrincha della musica, come “Alegria do Povo”, il brasiliano che aveva una gamba più corta divenne un fuoriclasse del calcio, così il giovane Gaber da una poliomelite, che gli bloccò la mano sinistra, trovò la forza di sbloccare l’arto suonando fino a diventare un virtuoso della chitarra.
Una volta guarito dalla malattia finì sotto i riflettori. Talento sbocciato nelle cantine del jazz, le cave parigine in salsa meneghina, come la Taverna Messicana dove quegli occhi rapaci come il naso pronunciato a mo’ di rostro, ghermivano la lezione chitarristica del grande Franco Cerri. Ed era davvero una cantina quella del bassista Giorgio Buratti in via Tosi, al 2, con i tubi dell’acqua a vista, in cui scorrevano fino a notte fonda le note lanciate in aria dagli strumenti degli amici per la vita: Enzo Jannacci, Paolo Tomelleri e Gianfranco Reverberi. Gaber nomade della musica. Passa da un genere all’altro con la stessa velocità di movimento del “Molleggiato”, il ragazzo della via Gluck, Adriano Celentano. Con Adriano, Giorgio va a tempo di rock, ma è ancora impregnato di jazz, e in trio, con Reverberi e Luigi Tenco (sax e voce) arrivato a Milano da Genova, incantava il pubblico della Piccola Baita di via Marigliano. Repertorio: tutti i pezzi dei Platters. L’informatore farmaceutico Giorgio Casellato, pianista con una passionaccia per la musica, invita Gaber a unirsi al suo gruppo di cow boy metropolitani, i Rocky Mountains. Repertorio, in questo caso, musica western. «L’idea della musica western era stata di Roberto Leydi, l’intellettuale musicologo che aveva assemblato il gruppo», si legge in Gaber la monumentale e imprescindibile biografia (edizione Hoepli. Pagine 305. Euro 27,90) scritta da Sandro Neri, grazie al quale seguire i tanti sentieri di questo gigante della musica e dello spettacolo d’arte varia diventa un viaggio sentimentale.
Dal western, comunque, Gaber torna al rock con la formazione de I giullari (Giancarlo Messaggi, Luigi Tognoli, Lino Rognoni e Giorgio Casellato e la cantante Vanna Ibba) che battono a tappeto la provincia come dei Blues Brothers lombardi. Ma il John Belushi della situazione era quel ragazzo magro, dal fisico sghembo, un albero ondeggiante che all’improvviso stupisce: si scopre che sa anche cantare e lo fa con uno stile mai sentito prima. Rilegge il rock americano alla sua maniera e lo stesso fa con gli chansonnier affini come Jacque Brel.
Se ne accorge Giulio Rapetti, alias Mogol, che lo seleziona per un provino e tra i tanti aspiranti a un contratto con la Ricordi sceglie «Giorgio perché richiamava il nome di un’attrice allora famosa, Zsa Zsa Gabor», ricorda Casellato che è stato il factotum artistico di quell’eterno ragazzo del Bar di via Giambellino che, nel 1958, registra la sua prima canzone, Ciao ti dirò. Quel brano «lo incide anche Celentano, ma è la versione di Gaber che spopola». Casellato nel ’59 presenta all’amico Giorgio la cantante Maria Monti, scovata al circolo Tranvieri di Arona, e al Teatro Gerolamo quello strano duo dall’ironia tagliente e le voci altrettanto affilate, mettono in scena Il Giorgio e la Maria.
Un sodalizio fortunato quanto quello che sarebbe sorto da lì a poco con lo scrittore delle notti milanesi, Umberto Simonetta, l’autore di romanzi da riscoprire assolutamente: Lo sbarbato e poi la fotografia reale di quegli anni da bohème sotto la Madonnina, Tirar mattina (scritto a casa di Gaber che gli ha ispirato il personaggio dell’Aldino). Con Simonetta, Gaber scrive La ballata del Cerutti, personaggio realmente esistito. Un tipo da Ufficio Facce della ditta Cochi& Renato-Beppe Viola, uno di quelli che più tardi diventeranno fonte di ispirazione per tanti pezzi da cabaret al Derby o tormentoni da Gruppo Motore. Cerutti Gino, che gli amici del bar del Giambellino (dove Gaber va a giocare a biliardo e a suonare la chitarra) chiamano “Drago”, è uno del giro, e un giorno decide di rubare la lambretta a quello che poi diventerà il suo cantante preferito. Così quando Gaber diventa famoso, il Gino, roso dai morsi della coscienza, gli telefona in piena notte e gli chiede di incontrarlo a Porta Ticinese per restituirgli la sua lambretta. Finale da romanzo popolare, in agrodolce, come Una fetta di limone cantata in coppia con Jannacci (erano I due corsari e poi i futuri Ja-Ga Brothers), un evento da festeggiare a Barbera e Champagne scritta anche quella dall’altrettanto anarchico Simonetta. In quei frenetici anni ’60, quelli del boom, Gaber si fa portavoce di una creatività esplosiva, basata nel coraggio di rischiare, nella volontà di scegliere continuamente delle vie sempre nuove e non ancora battute.
Per questo, affascinerà – quanto sua moglie Ombretta Colli – gli avanguardisti del Piccolo Teatro, Paolo Grassi e Giorgio Strehler. Gaber sceglierà sempre la via più difficile per arrivare alla cima e lo farà sfrecciando da anticonformista a bordo della sua Torpedo blu (canzone scritta da Leo Chiosso, storico autore di Fred Buscaglione). Il talento purissimo e riconosciuto, capace di riconoscere a sua volta con un colpo d’occhio e con quel ci vuole orecchio prestato dall’Enzo Jannacci, il talentuoso ragazzo siciliano alla chitarra elettrica, Franco Battiato e l’eclettismo di Herbert Pagani. Ma sarà il realismo esistenziale dei testi pittorici dell’artista Sandro Luporini a guidare Gaber alla scelta definitiva del teatro, come luogo di protesta e di nuova poesia civile, da cantare e recitare in monologhi memorabili.
Spettacoli di cui ora più che mai si sente la mancanza. E anche se Sandro Neri ne individua, non ci sono veri eredi del Signor G, ovvero “cantattori” capaci di stabilire con il pubblico un confronto alla pari, da protagonisti inconsapevoli o vittime involontarie del Paese reale. Un Paese che Gaber ha lasciato in pieno berlusconismo con la consapevolezza del «non mi preoccupa il Berlusconi in sè, ma il Berlusconi in me».
Cambiano i nomi, ma non gli scenari al potere, e il mondo ci fa sempre più male. Così, l’unica medicina per lenire le ferite dell’anima l’aveva trovata il suo amico, il dottor Jannacci nella “ricetta” di Se me lo dicevi prima: «E allora è bello / Quando tace il water / Quando ride un figlio / Quando parla Gaber...»