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 2022  dicembre 09 Venerdì calendario

L’intellettuale alla catena di montaggio

Capita di rado che un intellettuale si trovi a sgobbare in fabbrica e ancor più di rado che sappia scrivere cosa vi succede. Sono mondi che non comunicano, meno che mai oggi, e meno che mai nella cosiddetta Sinistra. Joseph Ponthus, dopo aver studiato letteratura e fatto l’educatore sociale nelle banlieues parigine, ha oltrepassato per necessità quella frontiera, per finire inghiottito dalla più tremenda delle catene di montaggio, quella dell’industria alimentare, la macellazione e l’industria del pesce, e ne è uscito per raccontarcela con una storia che, certo, gronda sangue, zoccoli, interiora, merda, molluschi, ostriche, colate di tofu e besciamella, ma soprattutto celebra la vittoria della libertà individuale sull’alienazione, il frastuono, la stanchezza, il gesto ripetitivo e lo sfruttamento intrinsecoalla macchina del profitto.Alla linea (titolo originale francese À la ligne. Feuillets d’usine ), edito da Bompiani, ben tradotto da Ileana Zagaglia, è un epos dalla forza simile a quella del migliore Blaise Cendrars, un racconto sulla condizione operaia dove la prosa, in cerca dell’essenziale, si disidrata al punto da diventare poesia, una sequenza filmica di immagini e pensieri condensati in versi liberi, una lezione innovativa di stile che avrebbe voluto una continuazione, uno sviluppo in altri libri, se non fosse che Ponthus, a soli 43 anni, è stato portato via da una malattia fulminante subito dopo l’uscita di questa sua incredibile opera prima. Mai come in essa ho visto coniugarsi il realismo più crudo con l’epica greca e latina, i grandi romanzi dell’Ottocento e la grande musica francese del dopoguerra, strumenti senza i quali, confessa l’Autore, «non avrei resistito». Il libro è una rilettura inattesa della “linea”, la catena di montaggio, e soprattutto di un suo potente effetto collaterale, quello capace di risvegliare nell’uomo- macchina non solo incubi e insonnia, ma anche una vita interiore parallela che ne esalta la creatività e in certi momenti la solidarietà con i compagni di fatica. Da quando è finito nel tritacarne, l’Autore non conosce più gli attacchi di panico della vita precedente, non prende più ansiolitici o antidepressivi. «La fabbrica – dice – mi ha calmato come un lettino (dello psicoterapeuta ndr) e la fine della fabbrica sarà come la fine dell’analisi, sarà semplice e chiare come una verità, la mia verità». Metamorfosi, questa, che comporta anche un viaggio liberatorio alla conquista di uno stile più scabro. «Solo l’essenziale», scrive Joseph, illuminato dal Diario di un manovale di Thierry Metz: «Questa lingua è ciò verso cui vorrei tendere. Queste parole».Niente metafore, niente arzigogoli. Nel mattatoio, «culmine, paradigma, simbolo e anche di più di quello che può essere l’industria agroalimentare», in mezzo al sangue e alla frattaglie da pulire, Ponthus si rifà a Guillaume Apollinaire immerso nel fango, sul fronte del primo conflitto mondiale. “Pulitore di trincea / pulitore di mattatoio / è quasi lo stesso / mi sento come se fossi in guerra / i brandelli i pezzi l’equipaggiamento necessario il sangue”; “Ora mi avvicino / non sono più al maiale ma al bue / è quasi in prima linea / o peggio / nel cuore delle linee nemiche”. E ancora: “Questa settimana mi hanno cambiato lavoro / non pulisco più la merda le budella le corna il sangue il grasso / sposto carcasse appese in alto sui binari / sono quarti di manzo o di vacca o di toro o di vitello / circa cento chili e un quarto / spingo le carcasse otto alla volta / faccio gesti come un pilone di rugby o un capostazione...”.Sotto l’urto della fatica l’anima cambia, sprigiona un’arcana reattività alla ripetizione asfissiante dei gesti: «Le stesse facce alle stesse ore / lo stesso rituale a inizio turno / gli stessi dolori fisici / gli stessi gesti automatici / le stesse mucche che sfilano ancora e sempre quando lavori su questa linea che non si ferma mai / che non si fermerà mai / lo stesso paesaggio della fabbrica / lo stesso nastro meccanico...»: certo, ma a volte tutto questo «è rassicurante come un bozzolo / fai senza fare / vagabondando tra i tuoi pensieri / la vera e unica libertà è interiore / fabbrica non avrai la mia anima / sono qui / e valgo molto più di te / e valgo molto più a causa tua / grazie a te / sono sulle rive dell’infanzia». Grazie alla fabbrica, le ore di libertà e la gioia delle piccole cose si rivalutano: «Fare una pennichella / svegliarsi senza pressione / fare una doccia di mezz’ora... / farmi bello per mia moglie... / andare a farsi l’aperitivo bello tranquillo al bar sotto casa / comprare un kebab con patatine e maionese». O il cane che ti fa festa quando rientri a notte fonda e devi portare fuori anche se sei a pezzi.Anche il corpo subisce una metamorfosi. «Mia madre è venuta a trovarmi poco tempo fa e mi ha detto che prima avevo mani da intellettuale...» e ora «le mia dita sono diventate più forti». Ne segue «la stupida battuta» sulla differenza tra operaio e intellettuale: «L’operaio si lava le mani prima di andare a pisciare, l’intellettuale dopo». Conclusione: «Io non mi lavo più le mani. Non voglio diventare schizofrenico». Autoironia, quella del proprio corpo guardato allo specchio, con le parole dei grandi vecchi che ritornano: «La vita è una tartina di merda di cui mangiamo un boccone ogni giorno / filosofeggiava mia nonna nei giorni in cui andava un po’ meno bene. Non è vero: / la merda è una tartina di buccini (gommosi molluschi dal guscio a forma di cono arrotolato) da scaricare a bancali quando da qualche parte il nastro trasportatore non funziona”. Buccini che poi “scivolano nell’abisso di cottura della macchina / lentamente / quasi metodicamente / inesorabilmente».Che legga tutto questo, lo beva fino in fondo il popolo del superfluo e della happy hour. Che veda la razzia industriale dei mari e la carneficina, l’immane ecatombe di maiali, di manze e di agnelli che si gonfia fino a formare montagne con l’approssimarsi delle feste di Dio desacralizzate dal consumo, o le tonnellate e tonnellate di frutti di mare che planano grondanti di acqua salata sulle tavole dei ricchi. Che sentano nello stomaco delle nazioni gli odori di topo morto, melma, piscio e vino cattivo mescolati e macerati che impregnano ogni cosa, che provino a immaginare cosa sognano, a fine lavoro, quelli che spingono i quarti di maiale, o quelli che sono alle frattaglie, o quelli che sono alle cuoia o quelli che marchiano a fuoco l’animale macellato. «Incubi senza fine senza vita senza notte / svegliarsi di soprassalto / lenzuola fradice di sudore / quasi ogni notte».Ma alla fine è sempre la bellezza che vince, perché «in fabbrica canti / cazzo se canti / canticchi mentalmente / urli a squarciagola coperto dal rumore delle macchine». Ed ecco Le temps des cerises, La folle complainte, e soprattutto Charles Trenet, senza il quale, diceva Jacques Brel, «saremmo tutti contabili». «Senza di lui senza il suo genio assoluto / sono sicuro che non avrei retto / che non reggerei». È lui che rende sopportabile «l’inferno dei tempi moderni». Ed è grazie alla musica che piccole cose assumono senso nel grande nulla della fabbrica. In catena di montaggio, non riuscire a cantare è la peggiore delle maledizioni. È il segno della resa, dello stress della macchina che ti ha vinto. Una delle ammissioni più vere e più dure della condizione operaia.