la Repubblica, 8 dicembre 2022
Il calcio parla arabo. La svolta del Marocco
Oggi il mondo è più arabo. Perché il calcio riesce sempre ad allargare i dintorni, a cambiare le geografie, a far capire che ci sono nuovi nomi sulla mappa. Sabiri, che segnato il primo rigore contro la Spagna, ha trovato le parole per dirlo: «Per tutta l’Africa, per i Paesi arabi, per tutti i musulmani del mondo. Volevamo renderli felici». Il Marocco è la quarta africana a raggiungere i quarti ai Mondiali, dopo il Camerun nel 1990, il Senegal del 2002 e il Ghana del 2010, ma è la prima nazionale del Maghreb. E di nuovo c’è che si porta addosso e trascina il mondo arabo, anche se è il Paese africano più vicino all’Europa (per 14 chilometri). Anche i villaggi dell’Africa subsahariana tifano l’ultima squadra del continente rimasta in gioco. Il Marocco gioca in casa a Doha in Qatar (30 mila fan allo stadio), clacsonate e cortei di auto fino all’alba, a Parigi migliaia sugli Champs Elysées al grido di «questo successo dimostra la nostra importanza», a Barcellona e a Madrid, in Spagna, a Bruxelles, in Belgio, a Milano, Torino, Roma. Perché non è mai solo calcio, a qualsiasi latitudine, ma orgoglio di poter rivendicare una storia.
E voglia di sentirsi parte di una stessa umanità. E se per gli europei tutti i nordafricani sono uguali, ora è veramente così, il Marocco si è ingrandito ed è sempre più global.
Bandiere marocchine nelle strade di Ramallah, la capitale amministrativa della Palestina, e a Nablus, feste a Gaza dove il Qatar ha provveduto a installare un maxischermo per far vedere gratis le partite. Ma celebrazioni anche a Dimona nel sud di Israele dove vive una comunità di emigranti ebrei dal Marocco. E anche bandiere della Palestina mostrate sul campo per affermare che il calcio non cancella la storia, ma che a volte bisogna vincere per sventolarla. Non è politico, solo gioioso, il ballo del pinguino di Hakimi dedicato al suo amico Mbappé. Ai ruggiti dei Leoni dell’Atlante nel calcio nessuno dava troppo importanza, un ct last minute, Walid Regragui, nemmeno tanto conosciuto (il secondo marocchino a guidare la propria nazionale), che usa la tecnica dell’ipnosi (tutti sveglissimi), 17 giocatori su 26 nati fuori dal Paese. Doppie nazionalità, in tanti sparsi in Europa, figli di un’Africa che per sopravvivere deve andare altrove. Però un’accademia di calcio, inaugurata nel 2009 da re Mohamed VI, nuovi investimenti (13 milioni di euro) e forme di reclutamento con osservatori che vivono nei Paesi dove questi calciatori crescono. Nessuna lontananza, c’è chi ti tiene d’occhio. Nel passato i nomi più famosi da Madjer, “Il Tacco di Allah”, a Zidane e Benzema, sempre di origini algerine, come lo scrittore Albert Camus che iniziò da portiere. Marocco grande nell’atletica, anche se a volte un po’ a sorpresa, come a Los Angeles ’84 quando una ragazza, Nawal El Moutawakel, sui 400 ostacoli andò in fuga, e le americane si dissero: lasciamola sfogare, dove vuoi che vada un’araba? Dritta al traguardo, naturalmente. Diventando la prima medaglia d’oro del Marocco, di un’atleta africana e di una donna musulmana ai Giochi. Qualche gio rno dopo il mezzofondista Saïd Aouita si prese i 5 mila e per dieci anni nessuno riuscì a stargli davanti. Poi arrivò Hicham El Guerrouj, un altro che correva i 1.500, ma che alle Olimpiadi non riusciva mai a vincere. Inciampava sempre in qualche piede. Ce la fece a 30 anni, alla terza, Atene 2004. Finalmente oro, doppiando 1.500 e 5 mila, basta maledizioni. Per capire di più come vanno storte le cose si era messo a leggere Paulo Coelho e Ben Jelloun. Si allenava alle undici di sera, con meno sei gradi, sulle montagne di Ifrane. Il suo record mondiale sui 1.500 resiste ancora dopo un quarto di secolo. E ora Soufiane el-Bakkali, eccezionale siepista, oro olimpico a Tokyo. Il Marocco, residenza o passaggio di scrittori maledetti: da Paul Bowles a William Burroughs che a Tangeri iniziò a scrivere lo scandaloso Pasto Nudo e poi Tennesse Williams, Truman Capote, Jean Genet e la Beat Generation. Ma anche la voglia di resistere di Marcel Cerdan, che a sei anni arrivò a Casablanca dall’Algeria e che nel 1948 sul ring contro Tony Zale diventa campione del mondo dei medi e l’uomo di Edith Piaf. Cerdan con una spalla rotta perde il titolo contro La Motta. È l’autunno del ’49. Piaf è in America, Cerdan è in Francia, sta preparando la rivincita, ha prenotato un posto in nave. Lei lo chiama: «Prendi l’aereo. Ho bisogno di te, muoio lontano da te. A domani». Domani c’è solo il telegramma: «L’aereo Parigi-New York si è schiantato sul picco Redondo, nell e Azzorre. Nessun sopravvissuto». Cerdan aveva 33 anni. Quando Lelouch girò il film su di lui a Casablanca potevate ancora incontrare i ragazzi con i quali Marcel scappava a dare calci al pallone, di nascosto al suo manager che glielo aveva vietato. Ora nei quarti la squadra che è diventata di casa nel mondo gioca contro il Portogallo. Come si fa a non citare Casablanca? Suonala ancora, Marocco.