la Repubblica, 8 dicembre 2022
Recensione della prima alla Scala
Non ce la fa a espiare né muore di rimorso: viene assassinato come Banco, zar Boris. Finale a sorpresa, poco giustificato, per lo spettacolo lezioso e intelligentemente ragionato ma senza autentico spessore interpretativo di Kasper Holten. Ma il tracciato narrativo di Boris Godunov, meglio nella quaresimale prima versione (che avrebbe avuto maggiore forza senza intervallo), è scolpito nella parola. Dalle voci e dagli strumenti.
Lo sa bene Riccardo Chailly, così come ricorda e ricrea, ma con sicurezza e colori tutti suoi, l’impronta generale cupa della lettura storica di Claudio Abbado. La sua prospettiva poggia su un lavoro di concertazione efficace: ricercata nello spicco dei dettagli e nella divaricazione di intenzioni tra le sezioni d’orchestra. Secca e ruvida al momento giusto — la cronaca di Pimen e il quadro della Duma — eppure addolcita e “legata” in progressione con le situazioni che conducono all’affondo doloroso nella musica dell’anima dell’angosciato Boris. Ben chiarita è la distribuzione di dinamica e timbri e l’uso “parlante” di accordi e vuoti orchestrali gettati come fionde realistiche a scandire il passo drammatico dell’opera. Senza privare gli squarci familiari del V quadro e del finale di condivisione affettiva, con tempi pensosi e sonorità ammorbidite; come nella seconda parte di “San Basilio”. Quasi bilanciando la pasticciata lettura scenico- registica. Grande merito di Chailly nella riproposta dell’Ur-Boris non è tanto la scelta del titolo (è più raro ascoltare la versione 1872 senza accomodamenti) quanto averne accolto l’originale impostazione drammaturgico-musicale. Accettando il ruolo per così dire complice e non esclusivo del direttore rispetto al rilievo da assegnare alle linee del canto.
La perfetta distribuzione delle voci è stata la mossa decisiva. A partire da Ildar Abdrazakov, protagonista e dominatore. Ma la lunga locandina di cantanti, incluso il coro di Alberto Malazzi, non aveva punti di debolezza. Perplessità ha suscitato lo spettacolo. Niente di originale nella scenografia che ricordava lo storico Boris di Andrej Tarkovskij. Elegante ma così intellettualistica da risultare inoffensiva e prevedibile la regia; soprattutto nella seconda parte — “dentro” Boris secondo Holten — carica di simbologie e controcronache superflue rispetto a ciò che, in più e in diretta, indaga e racconta la musica di Musorgskij.