Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  dicembre 07 Mercoledì calendario

«Fulminadi» da Berto Barbarani

«Correvano tempi aurei per le Muse. Non erano ancora nati né il Giro d’Italia né il campionato di calcio, e il pubblico amava, seguiva ed applaudiva i poeti». L’euforia con cui Giuseppe Silvestri, mezzo secolo dopo l’evento, scriveva sul Corriere d’una serata nell’agosto 1905 all’Hotel Progresso di Pieve di Cadore con Berto Barbarani e Trilussa, invitato il primo a recitar versi in dialetto veronese, il secondo in romanesco («prezzo lire due, sedia compresa») la dice lunga sul rimpianto per quella stagione epica. Basti rileggere l’omaggio allo stesso poeta veneto tributato dal quotidiano Il Secolo ricordando il suo debutto milanese nel 1899: «Fu un delirio. I saloni di Milano se lo disputarono per una settimana; poi fu il giro trionfale per le città d’Italia».
Nato 150 anni fa, il 3 dicembre 1872, era allora poco più che un ragazzo, alla morte del papà aveva dovuto lasciare il liceo e mandar avanti la ferramenta familiare ma, come scrisse Renato Simoni, «il fiore odoroso della sua poesia sbocciò ad un tratto. Come un rosignolo, egli trovò subito il suo gorgheggio. Lo cercò tutto al più in una mezza dozzina di sonetti. Poi fu padrone della sua arte; fu subito il Berto Barbarani che conosciamo ora, il malinconico cantore di tutte le delizie della giovinezza, squisitamente romantico e insieme potentemente verista. La sua originalità balzò pura e splendida, forse perché il suo ingegno si era poco nutrito di libri e molto di sole e sogni». Celebrato finché il Duce non s’incaponì a vietare l’uso dei dialetti, resta di lui il ricordo commosso di Verona e la poesia più struggente sulla miseria estrema del Veneto e l’emigrazione: «Fulminadi da un fraco de tempesta, l’erba dei prè par ’na metà passìa, brusà le vigne da la malatia che no lassa i vilani mai de pèsta; ipotecado tuto quel che resta col formento che val ’na carestia, ogni paese el g’à la so angonia e le fameie un pelagroso a testa! Crepà la vaca che dasea el formaio, morta la dona a partorir ’na fiola, protestà le cambiale dal notaio, una festa, seradi a l’ostaria, co un gran pugno batù sora la tola: «Porca Italia» i bastiema: «andemo via!».