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 2022  dicembre 07 Mercoledì calendario

Pierpaolo Piccioli si racconta

Ha colorato il mondo di rosa, quando il mondo di rosa non aveva (e non ha) nulla. Piuttosto di grigio. Ma forse è anche per questo che la giuria del Fashion Awards 2022 ha votato Pierpaolo Piccioli «stilista dell’anno». A consegnargli il premio a Londra l’amica attrice Florence Pugh. Un discorso emozionante, umano, potente in cui il creativo, che è la Maison Valentino oggi, racconta molto di sé. Un uomo che crede nei team, nella famiglia, nei valori e nei diritti che vanno sempre difesi e sopratutto crede nella moda come messaggio politico, come atto di ribellione, come forza: «Ed è per questo che amo il mio lavoro».
Cinquantacinque anni, romano di Nettuno, da dove parte (per Londra, Parigi, New York, Los Angeles), ma sempre ritorna. Dal 1999 in Valentino. Una vita, che è la sua, sognata. Un tatoo a ricordarglielo per sempre a firma dell’altro PPP (Pierpaolo Pasolini) della sua vita: «Non vogliamo essere subito già così senza sogni».
Con in mano l’Oscar della moda, sale sul palco e parla di vulnerabilità e umanità.
«Che per me è una forza. Perché la prima porta alla seconda e ci rende quello che siamo e in nessun altro modo. Quindi forti. Io ho scelto il linguaggio della moda per esprimermi. Quest’anno è stato un anno di scelte radicali: lo show tutto pink e l’alta moda in Piazza di Spagna dove ho fatto sfilare persone che trent’anni fa non sarebbero state mai accettate».
Già. Il monocromo e il ragazzo con l’abito da sera, giusto?
«Non sono forse più potenti di qualsiasi pensiero? Quel modello in abiti da donna che scende sulla passerella di piazza di Spagna, così statement; e un colore che ha da sempre un significato ma che ora possono indossare tutti, uomini e donne? Volutamente ho coperto i modelli e le modelle, lasciando fuori solo il volto. Non si torna più indietro da messaggi cosi».
Quando ha capito chi sarebbe stato e cosa avrebbe voluto dire?
«Io credo che sia stato un percorso fatto di tanti momenti. E forse il più radicale è stata la pandemia. Ha significato per me la consapevolezza che la moda fosse il mio linguaggio e con quello potevo dire esattamente quello che pensavo. Ho sentito forte questa responsabilità di avere una voce e doverla usare».
Da Nettuno, ogni mattina, in treno allo Ied di Roma: nei racconti di ragazzo lei era il provinciale e pure isolato.
«Non è che mi prendessero in giro, semplicemente ero quello che ero ed era la mia forza. Non appartenere mai a un posto o a un gruppo mi ha fatto fare delle scelte, anche non comuni. A vent’anni, sì, ci si può sentire soli, ma dopo diventa la tua potenza. L’identità ci permette di essere chi siamo. Come diceva Borges “Noi siamo il nostro ricordo e un numero infinito di mutevoli forme”. Ed è vero. Io non voglio dimenticare il ragazzino che guardava la moda con gli occhi incantati, come una cosa lontana. Voglio mantenere quella distanza e quell’incanto che mi permette di non sentire il peso della responsabilità, ma solo la forza».
Giocava con le bambole?
«Bambole? Macché, da bambino io volevo fare il regista».
Da Ppp a Ppp: era scritto che si tatuasse la frase di Pasolini.
«Mi piacciono i liberi pensatori e quella frase li racconta. E lui lo era. Era un visionario che ha raccontato l’Italia antidemocratica, come è quella di oggi. Era un uomo di sinistra non accettato dalla sinistra».
S i riferisce alla situazione politica attuale?
«Senza fare nomi credo che la storia abbia dimostrato che i diritti non solo vanno conquistati ma anche difesi: i campanelli debbano esserci sempre. Lo dico da cittadino e da persona. L’America di Obama è sembrata una conquista, per esempio, poi cosa è successo? Mai abbassare la guardia».
Sembra che gli stilisti italiani siano più bravi a fare politica con la moda.
«Forse. Ne capiamo il valore, sì: con consapevolezza e autorevolezza. La provocazione è un’altra storia: senti che c’è una volontà. La moda diventa potente quando fa passare i messaggi in modo sottile. È un linguaggio, un po’ come la scrittura».
Perché gli occhiali scuri, anche la sera? Non le bastava la divisa dell’operaio Piccioli: sneaker, t-shirt o felpa e cappotto e pantaloni e cintura elastico neri?
«Sul palco avevo il tuxedo, che però considero come una felpa... e gli occhiali fanno parte di me. Comunque non mi hanno dato il premio per modello dell’anno dunque...».
Red carpet con la famiglia: sua moglie Simona e i ragazzi, Pietro, Benedetta e Stella. Altro messaggio potente.
«La famiglia è sempre con te, anche se non vinci. Sono il mio porto sicuro e mi insegnano ogni giorno a essere un uomo migliore. Dai miei figli imparo più di quanto loro possano imparare da me: ogni giorno mi fanno vedere le cose con prospettive diverse e inaspettate. Non ti fanno sconti, ma ti supportano sempre. Volevo condividere questo momento con loro perché questo sono io. Sono la persona e il direttore creativo. La famiglia e il team, senza di loro non sarei qui. E questa vittoria appartiene anche a Giancarlo Giammetti e Valentino Garavani, che hanno creato questa azienda. Il mio lavoro non è un life style ma una community e io non ho vinto da solo ma con tutti. E alla cena è stato bellissimo: tutti tavoli da dieci e noi in quattordici: la mia famiglia, il mio team e Naomi e Florence e Kristen... insomma i soliti italiani».
La parola per il 2023 ?
«Libertà».
Valentino Garavani era «L’ultimo imperatore» e lei?
«Io sono, solo, Pierpaolo».