ItaliaOggi, 7 dicembre 2022
Barbano fa le pulci all’antimafia
Giornalista di lungo corso, con un curriculum importante (tra l’altro la vicedirezione de Il Messaggero e, per 6 anni, la direzione de Il Mattino) Alessandro Barbano torna in libreria con «L’inganno -Antimafia. Usi e soprusi dei professionisti del bene», Marsilio editore, Venezia, euro 18,00, una sorta di Bibbia dello stato di diritto, dello stato liberaldemocratico e del rispetto della Costituzione italiana. Il «beef», peraltro, ve lo do subito, tanto per mettere le cose in chiaro: una quarantina d’anni di leggi speciali, di antimafia militante e operante negli uffici giudiziari e nella società, a parte il Maxiprocesso di Falcone e Borsellino, non ci hanno dato nessuna vittoria storica rispetto al fenomeno mafioso che, radicato ormai in tutto il territorio nazionale, prospera come sempre, anche se ha smesso di assassinare gli uomini dello Stato.
Ciò che colpisce di più in questo lavoro non è tanto l’antinomia tra antimafia e garantismo, quanto l’ampia, approfondita descrizione di tutte le manifestazioni concrete nelle quali si manifesta l’antimafia, quella giudiziaria e quella dell’associazionismo. Scorrendo queste pagine, non posso dimenticare ciò che mi disse un alto ufficiale dell’Arma sul finire degli anni ’80 a Palermo: «Non credere a una separazione netta, col coltello: nei cortei antimafia si infiltrano e sfilano anche uomini della mafia come per dire: «non vi illudete, ci siamo anche noi».» Un messaggio subliminale che colpiva il messaggio che intendevano inviare coloro che dei cortei erano gli organizzatori e animatori.
La grande deviazione dalla Costituzione e dallo Stato di diritto è stata rappresentata dall’introduzione nell’ordinamento del procedimento di prevenzione: esso «esiste per le emergenze. I suoi rimedi sono spicci, ma sono stati i cardini di una quarantennale lotta alla mafia …»
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Ne esprime l’enormità giuridica ed etica il racconto del caso dei fratelli Cavallotti. Un esempio estremamente istruttivo che intendo porgervi integralmente. Una notte i carabinieri vanno a prendere gli amici di Bernardo Provenzano. Quarantasette. Per ciascuno di loro c’è un mandato di perquisizione e di arresto. Quello spiccato contro i tre fratelli Cavallotti li accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e turbativa d’asta. I tre sono figli di un operaio che due decenni prima si è messo in proprio. Tra una generazione e l’altro la ditta è cresciuta, si è sdoppiata in alcune società a responsabilità limitata, ha moltiplicato il fatturato. Adesso i tre fratelli danno lavoro a qualche centinaio di ex braccianti agricoli di Belmonte Mezzagno trasformati in operai. Da operai i Cavallotti vivono.
Li accusa un «pizzino». L’ha consegnato due anni prima il capomafia della provincia di Caltanissetta, Luigi Ilardo, al colonnello dei carabinieri Michele Riccio, poco prima di essere ucciso. È scritto di suo pugno da Provenzano e recita «Bisogna mettere a posto i Cavallotti» «Mettere a posto» vuol dire, nel gergo, riscuotere e anche proteggere. Quindi le aziende dei Cavallotti sono nel libro paga della mafia. Bisogna perciò andare a fondo e indagare sugli appalti nei territori controllati dalla cupola. E c’è un pentito, Angelo Siino, che dice di conoscere i Cavallotti e di sapere che essi fanno parte dell’«accordo provincia» che regola la spartizione degli appalti.
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Se i Cavallotti hanno visto prosperare i loro affari lo devono a questa intesa: è un’accusa che meriterebbe altre conferme, ma la parola di un pentito vale il carcere. Anche se dietro quella parola c’è la confusione, l’ambiguità, il non ricordo, o addirittura la contraddizione palese. Anche se, alla prova dei fatti, si scopre che gli appalti di cui si parla se li sono aggiudicati altri, non i Cavallotti. Lo si scopre dopo. Intanto i tre fratelli sono in carcere per due anni e mezzo. Il polverone sollevato dal pentito si dissolve nel processo. Anzi nei processi che si concludono nel 2010. Scrive la sentenza finale: «Mancano prove indicative di controprestazioni, di determinate istituzioni di rapporti societari o fiduciari, di specifici conferimenti societari anche occulti, di intestazioni fittizie. Neppure tali prove sono offerte dal convergente apporto, nel presente procedimento, di investigazioni patrimoniali o societarie, al fine di integrare il generico patrimonio cognitivo dei collaboratori.» L’aulico linguaggio significa che i collaboratori hanno consegnato aria fritta. Ma questo è niente di fronte al dopo assoluzione (perché il fatto non sussiste). Cinque anni dopo, infatti, il tribunale di prevenzione spoglia definitivamente i Cavallotti di ogni bene, siano le aziende o la casa di famiglia, le auto o i conti correnti. E qui si apre un altro calvario, una specie di caccia al tesoro volto a trasformare in corpo del reato qualunque soggetto abbia avuto a che fare con i Cavallotti assolti. Viene inquisita persino l’Italgas, per la quale hanno eseguito alcuni lavori.
L’«operazione Cavallotti» incrocia poi la dottoressa Silvana Saguto, giudice incaricato dell’amministrazione dei beni sequestrati il cui percorso professionale, accusato di inammissibili devianze, è stato da tempo illustrato dalla stampa e affrontato dagli uffici giudiziari palermitani.
Tra i rilievi approfonditi di Barbano, va menzionata la ’riqualificazione’ dei reati contro la pubblica amministrazione -e tra essi la concussione- mediante una equiparazione ai reati di mafia. Con le conseguenze paradossali che si possono immaginare. E qui mi fermo.
Barbano ha scritto un libro da leggere e meditare anche perché traccia un discrimine tra il mondo normale, quello delle cose normali, e il mondo dei professionisti dell’antimafia che vivono prosperano e addirittura fanno politica trasformando una doverosa funzione dello Stato in una personale opportunità.
Non perdetevelo.