Avvenire, 6 dicembre 2022
quando l’Iran non voleva il velo
Le norme giuridiche che disciplinano l’uso del velo in Iran hanno visto alternarsi divieti e obblighi. Mosso da principi secolari, fu lo scià Reza Pahlavi a vietare alle donne, con la legge sullo “svelamento forzato” (in farsi, Kashf-e hejab) del 1936, di girare con il velo nei luoghi pubblici, come strumento di modernizzazione del Paese. La legge fu abolita durante il regno del figlio Mohammed Reza e gli iraniani in generale furono liberi di scegliere come vestirsi. Fino al 1979, quando l’ayatollah Khomeini impose con un discorso del marzo 1979 ossia poche settimane dopo la caduta dei Pahlavi l’obbligo del velo negli uffici governativi, suscitando una forte reazione ostile da parte delle donne iraniane che sono scese in piazza in occasione dell’8 marzo di quell’anno per rivendicare la libertà di vestirsi come desideravano. Tra gli oppositori alla misura di Khomeini, diversi intellettuali e persino esponenti religiosi sciiti, come gli ayatollah Taleghani e Mahalati, i quali avevano ritenuto inammissibile qualsiasi coercizione in materia di hijab. L’inasprimento arrivò nel 1984 con una legge del Majlis (il Parlamento) che introdusse 72 frustate per le donne che non portavano l’hijab, e istituì, sul modello di altri Paesi islamici, una polizia religiosa incaricata di vigilare sul rispetto delle norme della sharia relative al codice di abbigliamento, in particolare l’obbligo di coprire il capo per le donne, indossare abiti lunghi e dai colori poco appariscenti. L’organo di controllo, chiamato “Amr-e be Ma’ruf va Nahi an Monkar”, letteralmente “Ordinare il bene e proibire il male”, diventerà successivamente la “Gashte Ershad”, ossia la Pattuglia della guida morale. Di solito, si tratta di una squadra composta da sei persone, quattro uomini e due donne, che gode di ampia libertà nell’applicare la legge, multando, arrestando e conducendo nei centri di “rieducazione” le donne che si ritiene siano abbigliate in modo improprio, magari per una ciocca di capelli fuori posto o per un rossetto sgargiante. Elevato dal regime a simbolo del ritorno ai valori islamici, il velo ha finito per diventare l’icona di una rottura interna alla società iraniana. Gli unici due passi del Corano in cui viene evocato il “dress code” islamico sono oggetto di diverse interpretazioni, sia in ambito sunnita che sciita. Il versetto 31 della sura della Luce (XXIV) recita: «E di’ alle credenti che abbassino lo sguardo e custodiscano le loro vergogne e non mostrino troppo le loro parti belle», mentre il versetto 59 della sura delle Fazioni (XXXIII) dice: «O profeta, di’ alle tue spose e alle tue figlie e alle donne dei credenti che si ricoprano dei loro mantelli; questo sarà più atto a distinguerle dalle altre e a che non vengano offese». La parola “mantelli” induce a pensare che il volto non sia compreso nel divieto. Da qui la gamma di “vestiti islamici” femminili che spazia dal semplice foulard che copre solamente i capelli, all’hijab che copre la donna dai polsi alle caviglie, lasciando in pratica scoperte le mani, il viso e i piedi. C’è poi il chador iraniano di colore nero che prevede anche i guanti per le mani, oppure il burqa, imposto dai taleban alle donne afghane e che le copre interamente lasciando una retina all’altezza degli occhi, o ancora il niqab.
Molti giuristi islamici sostengono che l’ordine di velarsi riguardava solo le mogli di Maometto e che non era applicato in maniera rigida alle altre donne, che erano libere di seguirla o meno. Le cosiddette “musfirat”, le donne scoperte, erano infatti numerose nei primi tempi dell’islam. «Ancora una volta sostiene l’islamologo gesuita Samir Khalil a proposito dell’obbligo del velo , il problema di fondo è che nel mondo islamico si tende a sacralizzare, attraverso l’autorità del Corano, ciò che in altri contesti viene ritenuto soltanto costume o consuetudine».