il Fatto Quotidiano, 6 dicembre 2022
Il memoir di Doherty
“Quell’estate avremmo dovuto aprire per gli Oasis al Milton Keynes Bowl in luglio, dopo dei festival all’Isola di Wight e a Ibiza, ma non arrivammo in tempo. Mullord e il resto della band rimasero da soli. Terribile. Kate e io eravamo andati a Parigi per festeggiare il trentesimo compleanno di Hedi. Al concerto, qualcuno del pubblico aveva un gigantesco pene gonfiabile, e Liam Gallagher disse: ‘Oh, sono felice di vedere che alla fine Pete Doherty è riuscito a unirsi a noi’. Una battuta niente male, niente male davvero”. Se in un colpo solo riesci a sembrare un cazzone agli Oasis, mettendo fuori gioco anche i tuoi Babyshambles, vuol dire che sei andato oltre ogni limite. Certo, a parziale attenuante di Doherty c’era, per quell’episodio, la compagnia della sua fidanzata. Alzi la mano chi avrebbe preferito lavorare e non attardarsi con la supermodella Kate Moss a un party in Francia.
Il problema è che per Pete, la più inaffidabile rockstar britannica a cavallo del millennio, l’eccesso è sempre stata l’unica regola. Nella Top Ten dei divi del r’n’r pronti per l’inferno, il Nostro è sempre sul podio. Pronto a scalzare Keith Richards, uno al quale scavano la fossa da decenni, ma che seppellirà tutti. Doherty, incontrollabile frontman di Libertines, Babyshambles e Puta Madres, è semplicemente un miracolato, oggi pacificato da una vita bucolica in Normandia. Ti si intossicano narici e vene al solo leggere la disarmante autobiografia scritta con Simon Spence, A Likely Lad (Il Castello). Titolo preso in prestito da una sua vecchia canzone. “Un ragazzo promettente”. Pete, anzi Peter, lo è stato davvero. Ma il capolavoro, al netto di qualche scampolo della carriera musicale, è non essere crepato. In questo crudo, spiazzante e a tratti inattendibile memoir lo troviamo perennemente sorpreso dagli eventi, mentre è circondato da aghi, carta stagnola, pipette da crack, minacciato da pusher, coinvolto in risse in cui è più spesso provocatore che vittima.
Doherty è un formidabile dissipatore di talento: un incrocio tra un intellettuale maudit, un tossico da sequel di Trainspotting, un hooligan devoto ai Queen’s Park Rangers, un Jim Morrison senza i Doors. E “senza” perché i compagni di band lo hanno a più riprese cacciato per la sua dipendenza, concedendogli però ticket per riaccoglierlo, a patto che si ripulisse. Eppure Doherty è riuscito puntualmente a peggiorare le cose. Mentre i Babyshambles erano in tour in Giappone senza di lui, aveva devastato e rapinato l’appartamento londinese del chitarrista Carl Barat, ed era finito in galera. Il numero degli arresti supera quello degli album: ogni volta la prigionia non è una purgatoriale tappa verso la detenzione, ma il pamphlet impietoso di un confronto-scontro con le gang e gli ostili compagni di cella. Ammantato di debiti con gli spacciatori, si fa impiantare sottopelle un farmaco a rilascio lento per ripulirsi, ma non ne esce mai. È preda ghiotta per trafficanti e piccoli pusher (lo è stato anche lui) e quando i poliziotti vogliono fare un fermo easy lo prendono di mira, stabilendo punteggi da fantacalcio sulle modalità.
Perso nei labirinti lisergici, Pete intravede realtà inesistenti: guai a rovesciare gli occhi sul palco, perché quell’immagine diventa una prima pagina sui tabloid. La più clamorosa non immortala lui. Il 5 settembre 2005 il Daily Mirror spara il titolone “Fatti come Kate” sulla foto in cui la Moss è intenta a sniffare cocaina nello studio dei Babyshambles. Chi ha fatto la soffiata? L’amore tra le due stelle drogate va in pezzi, almeno ufficialmente. Lei però non riesce a stargli lontano, si frequentano di nascosto, finché Pete non viene spedito a forza in rehab, dove tenta il suicidio. Troppo pure per Kate Moss.
Per Doherty la riabilitazione equivaleva a un penitenziario: nel 2004 lo catapultano in Thailandia, dove per “la clientela internazionale c’erano sedici letti a castello in una camerata” e intorno “gabbie piene di ragazzini che dondolavano avanti e indietro con aria folle”. Il rituale per guarire, da ripetere tre volte, consisteva nell’ingurgitare una pozione disgustosa che causava “vomito a proiettile”. “In teoria”, ricorda Doherty, “fatto questo avevi esorcizzato ogni demone e veleno dal tuo corpo, e lasciavano riposare il mucchio d’ossa che restava di te”. Non ha funzionato, nel suo caso. Pete è rimasto lo stordito testimone di drammi mai chiariti, come la morte di un conoscente appena uscito da casa sua. Ma dalla finestra del piano superiore. Uno sballato: aveva tentato di uccidersi “volando per aggrapparsi a un lampione” o cos’altro? E come rievocare, se non elusivamente, la fine tragica di Robin Whitehead, figlia del regista di un film dei Beatles? L’hanno lasciata morire senza prestarle soccorso?
Troppe croci senza spiegazione, nel percorso sconvolto di Doherty. Compresa la “sorellina” Amy Winehouse, compagna di follie chimiche, che prima di andarsene lascia a Pete un messaggio sulla segreteria per vedersi presto. Lui non l’ha cancellato per mesi. E non l’ha raggiunta.