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 2022  dicembre 06 Martedì calendario

Quel che resta della Biennale record

Certo non si dimenticano le gigantesse minacciose, statue di dura corda lavorata a maglia, opera di una defunta artista indiana, Mrinalini Mukherjee, o il classico dipinto acrilico della lieta e terrorizzante cena di famiglia, troppi commensali, troppe cose sulla tavola, della giovane americana Jamian Juliano-Villani. O a seconda del proprio sguardo qualsiasi altra delle più di 1500 opere che hanno occupato la 59ma Biennale d’Arte per 197 giorni, diventando il rifugio più sicuro per quello strano popolo che resistendo alle brutture del mondo ancora crede che la bellezza lo salverà. Finita, chiusa, vuoti e silenziosi i Giardini, l’Arsenale, l’immenso spazio monumentale con tutta la sua antica storia, che da aprile sino alla fine di novembre ha registrato questa volta la più alta affluenza di pubblico, 35% in più nei 127 anni di storia dell’istituzione, e il totale entusiasmo di tutta l’informazione (soprattutto straniera) che chiama con deferenza la Biennale di Venezia «la più antica e importante mostra d’arte contemporanea del mondo». Il nuovissimo (da due mesi) ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano si è trovato a condividere questo esaltante successo con il presidente della Biennale Roberto Cicutto, ex produttore del più bel cinema non solo italiano e direttore di Cinecittà per quasi dieci anni, e la curatrice Cecilia Alemani, milanese che vive a New York dove si occupa di arte pubblica alla High Line, bella signora di 45 anni, che già si era vista alla 53ma Biennale nel 2013, quando il curatore era suo marito Massimiliano Gioni, pure lui di gran bell’aspetto, e nel 2017, quando lei firmò il Padiglione Italia. Si sa che Sangiuliano non ha perso tempo, sostituendo subito la presidente del Maxxi di Roma, Giovanna Melandri, con un opinionista politico (di Libero ) e sostenendo con tutta la sua autorità la candidatura a patrimonio dell’Umanità del culto e devozione di San Gennaro. Ma sarà certamente soddisfatto dei risultati eccezionali di questa miracolata Biennale: 800 mila biglietti venduti a un pubblico proveniente per il 59% dall’estero, più le 22.498 presenze privilegiate durante la preapertura, numeri che potrebbero far fremere anche la ministra del Turismo, pensando a questa massiccia folla internazionale che mance ne avrà pur date in giro per la città, un tesoretto o tesorone da tenere d’occhio. Ma anche il ministro dell’Istruzione e del Merito dovrebbe interessarsene: perché l’hanno visitata 1044 scuole di cui 47 dell’infanzia e nidi, 156 primarie, 80 secondarie, 761 secondarie di secondo grado; 6416 insegnanti sono stati coinvolti nelle attività educational in sede espositiva, 3040 nelle preview. Non è che questa arte forse un po’ degenerata — in quanto questa volta soprattutto femmina e persino non binaria senza vantarsene — potrebbe aver ferito la mente di molti giovinetti? Dunque è andata così: mentre vicino a noi un’invasione pazza, una guerra assurda cercava, cerca, di sterminare un popolo e una nazione, mentre in Italia impazzava la campagna elettorale e vinceva a furor di popolo evasore una graziosa signora temuta più della Regina Cattiva di Biancaneve, la laguna all’improvviso tornava a una vita che pareva perduta, quella di un’isola di pace e pensiero, di nuovo abitata da una folla multicolore curiosa, appassionata e persino felice.
Dice il presidente Cicutto: «Sì, felice, perché dopo tanto isolamento e prigione della pandemia, la gente ha ritrovato il piacere del viaggio, di spostarsi da nazioni e continenti, di ritrovarsi con tutto il resto del mondo che condivide lestesse passioni, di riunirsi tra popoli diversi: sentirsi simili, guardarsi».
Sin dall’apertura tutto l’appassionato gruppo di lavoro della Biennale ha voluto archiviare persino il ricordo delle estreme difficoltà per arrivare a questo successo, anche Cicutto, che ha iniziato il suo mandato nel marzo 2020, cioè in pieno lockdown, con lo spostamento di un anno della mostra di architettura e quindi di questa. Quanto alla guerra vicina, «la Biennale — dice Cicutto — ha voluto fortemente garantire la presenza degli artisti ucraini, supportando la realizzazione del loro padiglione e mettendo a disposizione uno spazio libero ai Giardini, Piazza Ucraina, per la presentazione di opere trasmesse digitalmente di artisti rimasti in patria e spesso direttamente coinvolti nella resistenza». I russi avevano spontaneamente rinunciato a partecipare. Intanto Cecilia Alemani, che era stata nominata da Paolo Baratta, il precedente presidente arrivato al suo terzo mandato, doveva allestire l’immensa mostra senza girare il mondo, senza incontrare artisti, senza esplorare i loro studi: ogni opera è stata scelta con le immagini e le conversazioni su Skype, un modo immateriale che ha creato una immagine forse meno concreta, meno legata al presente, più universale, il passato che già è il futuro.
Si sa che se sei donna oggi è meglio, ma non è per questo che Alemani — al numero due nella Power List annuale diArtReview — ha privilegiato artiste femmine, 1500 opere da 58 paesi, di 192 artiste e 21 artisti: «Io cercavo opere interessanti che rappresentassero la contemporaneità rivolta al domani, e solo dopo averle scelte ho visto che erano di donne. Del resto dalla prima mostra del 1895 a tutto il ventesimo secolo le donne sono state meno del 10%, eppure non si è mai parlato di Biennali maschili. I femminismi sono tanti, e le artiste e gli artisti di questo 2022 sono andati oltre». Sono esposte quelle artiste del passato di movimenti come il surrealismo, cancellate dalla storia dell’arte in quanto donne, ma già visionarie del postumano. Mancano le celebrità da milioni di dollari con le loro opere a invecchiare nei palazzi sibariti, manca l’arte digitale e NFT perché — dice Alemani — «ho costruito tutta la mostra seduta davanti a un video, e avevo nostalgia della vicinanza, della concretezza, di poter sfiorare, toccare ». E forse la casuale abbondanza di donne dipende dalle loro ricerche culturali e dalle nostre paure, dal loro impegno a raccontare le responsabilità di tutti verso il pianeta, a esplorare le possibilità di sopravvivenza della nostra specie, a immaginare come sarebbe il pianeta senza di noi, quali metamorfosi attendono i nostri corpi e la loro relazione con la tecnologia.
Ritornare alla realtà post tutto tranne la guerra ci ha immerso di nuovo nel brutto, ma ci consente pensieri pratici tipo «anche io voglio non pagare le tasse». E poi per ritornare nel futuro anche se non rassicurante — dove i pesci colorati di Cosima von Bonin, nata in Kenya, abbaiano e la svizzera Louise Bonnet, che vive a Los Angeles, espone un roseo corpo nudo in ginocchio senza testa né braccia e i cui capezzoli sono due fari — c’è un catalogo edito dalla Biennale stessa, di monumentale bellezza come non se ne fanno più, che necessita di reggilibro anche non umano e che non si smetterebbe mai di sfogliare.