la Repubblica, 6 dicembre 2022
Il rapporto difficile tra politica e Bankitalia
Se la Banca d’Italia avesse dovuto cedere a tutti gli attacchi che la politica le ha mosso nella sua lunga storia, con tutta probabilità oggi non resterebbe più nemmeno il ricordo di Palazzo Koch, raso al suolo da timori, insofferenze, sospetti, vendette, complessi d’inferiorità e paranoie complottistiche.
Di sicuro il sottosegretario Fazzolari ricorda Pinuccio Tatarella, antenato dei Fratelli d’Italia, che nell’estate del 1994, a freddo e con animo niente affatto amichevole collocò la tecnocrazia di via Nazionale nel novero dei “poteri forti”. Anche in quel caso per i nuovi arrivati la Banca d’Italia era terra di conquista e bottino di guerra, concezione non sai se più ingenua o avventata. Dopo tutto, c’era in ballo la nomina di un direttore generale, su cui Tatarella, vice del primo Berlusconi, si era impuntato: «Si mettano in testa – disse – che vogliamo comandare noi». Sennonché questa storia del “comando” non teneva in debito conto l’autonomia che la storia, e in fondo anche il buon senso, assegnano all’istituzione e perciò anche a quel ceto che in nome della fredda razionalità dei numeri e di una fitta ragnatela di relazioni internazionali, da quasi un secolo è abituato a guardare ai politici dall’alto in basso. Così Tatarella in extremis si accontentò a mettere il cappello sul dottor Desario, soluzione che più interna non poteva essere, accontentandosi delle radici pugliesi di quel dirigente.
A Bankitalia d’altra parte avevano resistito a prove ben peggiori. Nel 1979, non si è capito mai bene se per compiacere Fanfani o Andreotti, comunque come rivalsa rispetto a certe scelte effettuate dall’Istituto su Michele Sindona («protagonista della grande pestilenza» lo definì il Governatore Guido Carli, che sul piano delle definizioni sapeva il fatto suo), insomma, dei giudici usati come strumenti arrivarono a incriminare Paolo Baffi e a mandare a Regina Coeli il vicedirettore della Vigilanza Mario Sarcinelli. Che tuttavia otto anni dopo divenne ministro: di Fanfani, per giunta.
Così come, dopo il “Venerdì nero” della lira del 1985, un presidente del Consiglio super decisionista e anzi bello prepotente come poteva esserlo Bettino Craxi attaccò in modo frontale – «inaccettabile» – l’operato di via Nazionale, dove c’era Ciampi, anche lui bello tosto. Il quale Ciampi senza tante storie andò a dimettersi al Quirinale, dove fu subito e vivamente trattenuto da compiere un gesto che avrebbe creatoall’Italia guai finanziari ben più gravi.
Tutto questo per dire che con Palazzo Chigi e il 27 per cento alle elezioni non è che si può tanto scherzare o mostrare i muscoloni. E se pure è vero che con l’euro la Banca d’Italia ha perso parecchio del suo potere, resta il fatto che l’economia e la finanza richiedono una prudenza un tantinello più approfondita che sui rave o gli spettacolini social. Per cui al dottor Visco, che non è un attaccabrighe, sarà pure costato, però fra Pos, tetto al cash e strizzatine d’occhio agli evasori qualcuno doveva pur dire che si stava esagerando.
Chissà cosa ne pensa l’ex ministro Tremonti, che nella seconda e terza stagione del berlusconismo di governo, ingaggiò una specie di duello mortale e circense con l’allora Governatore Fazio, pure imitandone lo spiccato accento ciociaro, prendendo in consegna tapiri e ostentando sulla scrivania barattoli di conserva che richiamavano il caso Cirio. Gli riuscì perfino di fissare una scadenza, «come lo yogurt» fu l’immancabile battuta. Ma poi la storia, e in fondo vita stessa, è più complicata delle sfide personali e chi di potere colpisce, di potere è colpito – anche se pochissimi, in verità, riescono ad apprendere la lezione.