La Stampa, 6 dicembre 2022
Giuseppe De Rita: «Noi borghesi piccoli piccoli»
«Non ci si può dimenticare del ceto medio, perché è la trave portante del Paese. Negli ultimi 50 anni tutti quelli che non ne facevano parte sono entrati in questa classe sociale, e da lì non si sono mossi. Impossibile ignorarli». Giuseppe De Rita, 90 anni, fondatore del Centro studi investimenti sociali (Censis) e gran divulgatore della sociologia italiana, commenta così La politica post-populista che ha tradito il ceto medio, come titolava l’editoriale di domenica del direttore Massimo Giannini.
Cosa sta succedendo ai travet pubblici e privati ignorati dalla destra, impegnata a onorare debiti corporativi, e dalla sinistra, concentrata sulle sue pratiche di autodistruzione?
«Dal contadino meridionale diventato bidello fino all’insegnante di liceo che ha scoperto di essere solo un impiegato c’è stato un ampliamento e una normalizzazione del ceto medio. Negli Anni 70 tranne un 5 per cento di ricchissimi e un 5 di poverissimi il resto del Paese ne faceva parte. Non è cambiato molto da allora, ma la dinamica è mutata: una volta tutti finivano nel ceto medio, poi quel rigonfiamento degli Anni 70 e 80 non è progredito. E da allora può solo difendersi o regredire. Avrebbe potuto andare avanti, ma negli ultimi quarant’anni non ha fatto un passo».
Cosa gli è mancato?
«L’orgoglio. Non ha trovato il gusto della sfida di diventare nuova borghesia assumendo un ruolo di classe. Gli è mancata un’idea di egemonia gramsciana, una visione della società e di come perseguirla».
È rimasto piccolo borghese?
«Esatto, non è diventato borghesia. Pasolini disse che gli italiani sarebbero rimasti dei miseri piccoli borghesi, e aveva ragione».
Chi guida la società dunque?
«Piccole minoranze e processi spontanei. Penso all’industria che esporta e produce il 30 per cento del Pil, anche se gioca più sull’estero che sull’Italia».
La vittoria di Meloni è un fatto spontaneo?
«È più il frutto di una cultura di opinione. Ha saputo rassomigliare alla società e cavalcare l’onda. Si è presentata come una donna politica ed è piaciuta, non come Letizia Moratti che si racconta come manager».
Come mai alcuni provvedimenti del governo sfavoriscono il ceto medio?
«Il ceto medio si è formato grazie a tanti interventi di minoranza, dunque Meloni accarezza fette di società con decine di norme come si è sempre fatto. Poi è in carica da poco e non la si può accusare della mancanza di un disegno. Non ce lo avrei neppure io, e detto tra noi non lo aveva neppure Draghi, che era più bravo di tutti. Meloni, con la guerra e l’Ue che non l’aiutano, deve mettere tante pezze. Questa è l’unica logica».
Resta il fatto che il welfare pesa su 5 milioni di contribuenti.
«Una stortura che nasce negli Anni 70, quando cominciarono gli investimenti sociali per stimolare la crescita. Finanziamenti non tanto sulla società quanto sulle strutture, per esempio le scuole, privilegiando la quantità alla qualità».
Insomma, bisogna tagliare?
«Sì, naturalmente in modo non radicale ma riconducendo il welfare alla funzione di coinvestimento sulla società e non di un contributo ideologico per diminuire i divari, compresi quelli del Sud. Allo stesso modo il fisco va riformato perché diventi una leva di sviluppo».
Conte dice che se si toglie il reddito di cittadinanza esplode una bomba sociale, è così?
«Mi faccia stare zitto, questo non è più un argomento tecnico ma di battaglia politica».
E tecnicamente?
«Il reddito di cittadinanza non andava fatto. Bastava e basta un ampliamento del reddito minimo garantito».
Ma la bomba sociale esiste?
«Può darsi che il reddito di cittadinanza sia una protezione per molti, ma non è lo strumento più adatto».
L’Italia si è impoverita molto?
«I dati dimostrano che ci sono 6 milioni di persone in difficoltà. Il fenomeno esiste, ma se vuole il mio parere si esagera. È un’altra ondata di opinione. La verità è che l’Italia è stata molto più povera di adesso».
Ci piangiamo addosso?
«È una caratteristica nazionale. E, come con Meloni, quando sorge un’ondata di opinione è difficile resisterle. Oggi il luogo comune è che ci siano tanti poveri».
L’inflazione non la impensierisce?
«Colpirà soprattutto i dipendenti, ma sarà passeggera. Non cambierà la struttura sociale del Paese. E poi la mia generazione ha visto l’inflazione al 20 per cento, si figuri se mi preoccupo per questa».
Come vede la situazione dei giovani?
«Assomigliano a questa società ferma, che con il sostegno di genitori e nonni non va avanti ma neppure indietro».
Un Paese da sbloccare?
«In uno stato di latenza, per dirla con Freud, ma non è detto che sia un male».
È il catenaccio all’italiana per difendersi come nel calcio?
«Appunto, se devo dare un consiglio avendo otto figli è di aspettare che passi questo momento di incertezza senza drammatizzarlo troppo. E facendo tutti meglio il proprio mestiere».
Una riforma costituzionale aiuterebbe a sbloccare il Paese?
«Non è determinante. Il sistema va avanti da solo e se un po’ di verticalizzazione era necessaria è già stata applicata fin dai tempi della Dc, di Craxi, di Monti e di Draghi».
Non cambiano troppi governi?
«Può darsi, ma l’Italia ha sempre risolto le sue crisi. Il Regno Unito, sistema ben più sperimentato del nostro, di recente ha fatto di peggio».
Lo storico Luciano Canfora ha detto che non teme il governo Meloni perché la politica estera la decide la Nato, quella economica la Bce e al massimo si sfogherà sui migranti. Siamo un Paese a sovranità limitata?
«Dal 1945 avendo perso la guerra e poi con la Cortina di ferro».
E oggi?
«In parte meno, perché non c’è più una minaccia militare. Siamo nella Nato, ma siamo anche una società moderna su cui agiscono grandi processi sociali, finanziari, tecnologici e di comunicazione. Oggi nessuno Stato è completamente indipendente».
L’Unione europea ci conviene sempre?
«Assolutamente sì, perché è un diaframma tra l’Italia e i grandi processi mondiali. Siamo un Paese troppo piccolo per affrontarli da soli. Possiamo anche sperare di essere più indipendenti fuori dall’Ue, ma non lo saremmo».
Cosa pensa del congresso del Pd?
«Manca un dibattito sulla società e dunque manca il partito. Non è un problema di oggi, ma della fusione a freddo originaria tra democristiani e comunisti. Cadono le braccia al confronto col dibattito Moro-Andreotti, in cui il primo vedeva una politica in grado di guidare la società e il secondo un partito accondiscendente che lasciasse alle persone la libertà di essere se stesse».
Il M5S durerà?
«No, finita l’ondata del vaffa, gran trovata di Grillo che colse la stanchezza della società, restano solo difese di posizione».
E il Terzo polo?
«È una vita che ne sento parlare e non l’ho mai visto realizzarsi».
E la Lega alle prese con la questione settentrionale?
«Questione che non è più drammatica come ai tempi di Bossi, ma esiste. Negarla era impossibile e per questo riaffiora».
A 90 anni non si è ancora stufato di raccontare l’Italia?
«Rispondo con i versi di Continuità di Mario Luzi: "Forse quanto è possibile è accaduto, ma da te si rigenera l’attesa". Ogni volta che mi avvicino alla realtà italiana, da Torino a Napoli, quasi in una dimensione onirica, scopro qualcosa di nuovo che non immaginavo prima. Per questo voglio sempre bene a questo Paese».