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 2022  dicembre 06 Martedì calendario

In Kenya si muore di sete

C’era una volta l’acqua. Oggi rimangono i corpi degli animali morti di sete e fame. Carcasse ovunque. La contea di Isiolo – che si estende dal centro del Kenya verso il nord-est, dove negli ultimi sei mesi sono piovuti meno di 10 millimetri di pioggia – ne è piena. Lungo le strade sterrate, in mezzo ai campi siccitosi. Vacche, capre, asini e cammelli. Ci sono anche i sopravvissuti: bestie irriconoscibili. Scheletri uniti da pelle sbiadita, piena di segni e ferite. I cammelli hanno perso la gobba, sembrano un macabro scarabocchio di un bambino che non ne ha mai visto uno. Alle mucche si possono contare tutte le costole da dieci metri di distanza. I pastori quando incontrano un ostacolo, basta una piccolo rialzo del terreno, fanno giri larghi: perché se l’animale inciampa e cade, non ha la forza di rialzarsi.
Siamo tristemente abituati, da decenni ormai, a vedere le scene della carestia nel continente africano. Il nostro immaginario è saturo di esseri umani emaciati. Ma gli animali, in decomposizione o magrissimi, sono una scena tutta nuova. Le loro immagini entrano sottopelle, impresse tra le palpebre. Chiudendo gli occhi, anche a giorni di distanza, riappaiono. È il nuovo orrido spettacolo del cambiamento climatico.
MALNUTRIZIONE CONDIVISA
La siccità qui non ha precedenti: se prima pioveva poco, ora non piove più. È la differenza tra mondo dei vivi e quello dei morti. Nel centro e nel nord est del Kenya, sopra la linea dell’Equatore, si sta concludendo il terzo anno consecutivo con piogge sotto la media, il sesto anno negli ultimi dieci. La temperatura media è salita di 1,2-1,5°C rispetto allo scorso secolo, dicono le statistiche ufficiali. Ma anche i membri delle comunità rurali della contea di Isiolo lo sanno. I pastori più anziani ripetono tutti la stessa cosa: «Una volta pioveva poco, ma bastava. Ora senza acqua non sappiamo più cosa fare», dice Galgalo Jadesa, a capo della comunità di Garfasa, remota località a 160 chilometri da Isiolo. «Ci sono 127 famiglie nella nostra comunità: abbiamo sempre fatto i pastori, ma ora per trovare i pascoli dobbiamo andare sempre più lontani. I nostri uomini stanno ormai lontani da casa 6-7 mesi all’anno, in cerca di cibo per le bestie».
La siccità crescente non colpisce solo il bestiame. La malnutrizione infantile è cresciuta esponenzialmente negli ultimi mesi: tra agosto e ottobre sono saliti del 30% i casi di malnutrizione moderata registrati nell’ospedale di Isiolo; del 60% i casi di malnutrizione grave. Non bastano più gli integratori alimentari che arrivano dagli aiuti internazionali. Lo fa capire Yare Jattani Huka, di Gafarsa, 37 anni, due figli e un marito che se ne è andato. Vive in una casa di legno e fango che la comunità le ha costruito. «Gli integratori finiscono subito. Me li danno solo per il figlio più piccolo, ma io devo dividerli con l’altro figlio. Li dividevo anche con l’unica capra che avevo, ma lo scorso mese è morta», dice la donna mentre allatta. Un’altra donna, Nuria Abdi Halakeh, 29 anni, ricoverata all’ospedale di Isiolo insieme alla figlia di tre mesi, spiega che nemmeno i pochi risparmi servono, ora che l’inflazione è salita vertiginosamente: «Una volta compravamo il latte dai nostri amici che avevano il bestiame. Con la siccità e senza bestie bisogna comprarlo al negozio, ma costa troppo».
Durante una riunione delle donne di Gafarsa, sotto uno dei pochi grandi alberi del villaggio, una donna si lamenta: «Non ricordateci del latte, ci viene da piangere per la nostalgia».
LA MALATTIA NERA
Siccità significa anche malattie infettive: tra gli animali e tra gli esseri umani. Un esempio su tutti, la leishmaniosi. «Non era mai stata registrata in questa zona del Kenya. Ma negli ultimi sei mesi c’è stata un’epidemia spaventosa: 150 casi in poche settimane, 10 morti», spiega Soransora Tadicha,che coordina il reparto dell’ospedale di Isiolo dedicato alle malattie tropicali e le zoonosi. «Dopo le indagini abbiamo capito cosa è successo: nei fiumi secchi si creano delle crepe, buie e umide. Qui sono migrati i pappataci, i vettori del kala azar». Kala-azar, questo il nome popolare della leishmaniosi che significa "malattia nera".
Nella contea sono aumentati i casi di brucellosi (si prende bevendo latte di cammello che non è stato fatto bollire) e di febbre della Rift Valley e si sono registrati i primi casi di febbre gialla. All’aumentare dell’emergenza climatica aumentano gli spillover, il salto di specie delle malattie: ciò che abbiamo imparato a livello teorico durante la pandemia qui si verifica ogni giorno.
IL FUTURO DELLE DONNE
«Il 75% delle malattie della contea è di origine animale», puntualizza Anthony Odhiambo, 40 anni, project manager keniota per la onlus Amref. «È un dato fondamentale per capire come rispondere all’emergenza. La siccità sta mettendo a rischio la sicurezza alimentare e quella sanitaria. Ecco perché la risposta deve essere olistica, e comprendere tutto». Amref sta intervenendo seguendo l’approccio One Health, una salute, un approccio medico che mette insieme tre facce della salute: animale, umana e ambientale. «La natura, a causa del cambiamento climatico, si comporta in maniera sempre più imprevedibile e complessa. E davanti a un problema complesso, non può esserci soluzione semplice. Tutto si intreccia».
Il contributo di Amref quindi non si vede nelle infrastrutture o nei semplici aiuti a paracadute, ma nel supporto che parte dal basso. Nelle comunità coinvolte dal progetto One Health, Amref ha messo a disposizione un’unità mobile che raggiunge i pastori per curare tanto gli animali quanto gli uomini. Hanno poi fornito delle piccole stazioni meteo affinché le comunità registrino piogge e temperature autonomamente, e possano avere (e fornirci) un’idea precisa del microclima. Amref e i suoi partner supportano degli incontri mensili dove organizzazioni e membri della comunità affrontino collettivamente i problemi e segnalino lo scoppio di epidemie. E infine hanno dato il via a dei gruppi di supporto tra le madri dei villaggi. Ed è proprio questa una delle chiavi per capire il futuro di queste comunità: il ruolo delle donne.
Perché sono loro a rimanere nei villaggi aridi, mentre i mariti sono nei pascoli lontani. Le donne devono prendersi cura dei figli, del bestiame domestico, della gestione quotidiana del villaggio, dell’acqua da recuperare da ciò che rimane del fiume, scavando in profondità nel fango per trovare una fonte limpida. Hanno responsabilità nuove, difficili. Ma affrontandole porta idee nuove. A Leparua, una comunità a ovest di Isiolo, dove è piovuto negli ultimi tre giorni di novembre, si prova a rinascere. Se la pastorizia non basta più, è tempo di coltivare. Sono nati i kitchen garden (giardini domestici): piccoli orti dietro casa, dove coltivare verdure e frutta. Christine Nkaai Mainge, 25 anni, e Margaret Naiku Kortol, 27 anni raccontano la novità con orgoglio: «Ci scambiamo i consigli a vicenda. Coltiviamo spinaci, patate, amaranto, peperoni», dice Margaret in inglese traducendo il pensiero di entrambe. «Prima pensavamo che le verdure facessero venire i vermi allo stomaco. Ora però vediamo i nostri figli più sani, più robusti. A casa mia ho meno acqua, quindi per certi ortaggi vado da lei, dividiamo lo spazio». Sembrano sfide impossibili al tavolo di un gioco truccato dal cambiamento climatico.
Ma la partita non è ancora persa: forse c’è un modo per non dover migrare da zone sempre più inospitali. Anche perché in questo angolo di mondo, dove milioni di anni fa è nata l’umanità, basta un giorno di pioggia per cambiare tutto, per trasformare la terra da marrone arido a verde speranza: «Io sogno la pioggia ogni notte», dice Margaret. «È una benedizione», «un miracolo», ripete chiunque. Non è un caso che qui, quando si avvicinano nuvoloni pieni d’acqua, si dica: «È arrivato il beltempo».