Corriere della Sera, 6 dicembre 2022
Un saggio sulle minoranze religiose
Mille anni di guerre. Conflitti. Persino tra i più sanguinosi. Ma mille anni anche di convivenza e di relativa tolleranza. Tra il VII e il XVI secolo i musulmani conquistarono vaste aree delle regioni mediterranee e dell’Europa centro orientale abitate principalmente da cristiani. Parte di quelle terre poi, tra l’XI e il XV secolo, furono riconquistate dai cristiani. Sui rapporti tra i devoti alle due religioni quando si sono trovati sotto il dominio gli uni degli altri ha indagato con grande acume Luigi Andrea Berto per un libro, Sudditi di un altro Dio. Cristiani sotto la Mezzaluna, musulmani sotto la Croce, in procinto di essere pubblicato, il 9 dicembre, dalla casa editrice Salerno.
Nell’Antico Testamento, ricorda lo studioso, si raccomanda, nel caso in cui gli abitanti di una città si siano rifiutati di arrendersi all’istante, di uccidere tutti gli uomini e di ridurre in schiavitù donne e bambini. E di farlo con maggiore determinazione se i nemici si sono difesi accanitamente. Questa fu la linea di condotta di musulmani e cristiani per tutti i secoli di cui si è detto. E non mancarono episodi nei quali «la maggior parte della popolazione civile fu massacrata dopo la presa di un centro abitato». In questa maniera, ad esempio, si comportarono i cristiani dopo la presa di Gerusalemme nel luglio del 1099. Allo stesso modo fecero i turchi dopo la conquista di Costantinopoli nel 1453.
Le fasi di guerra tra cristiani e musulmani sono importanti in sé e per le tracce che lasciano nei periodi successivi. Non mancano casi estremi. In Sicilia a metà del IX secolo d.C. si distingue per razzie e crudeltà il governatore musulmano al-Abbàs ibn al-Fadl. Il governatore muore nell’861: l’odio da lui suscitato nella popolazione dell’isola, scrive Giorgio Ravegnani in I bizantini in Italia (il Mulino), risulta evidente anche dal fatto che «i cristiani disseppellirono il suo cadavere appena inumato e lo bruciarono, prendendosi così una vendetta postuma». Ma, secondo Maurice Lombard – che ne ha scritto in Splendore e apogeo dell’Islam VIII-XI secolo (Rizzoli) – i casi di scontro furono assai meno di quelli di incontro. I rapporti dei musulmani con i popoli sottomessi, documenta Lombard, furono «facilitati dalla tolleranza degli invasori, gente abbastanza indifferente in materia di religione, persino scettica». Non si ebbero (o quasi) persecuzioni, conversioni forzate. I vincitori, sostiene Lombard, manifestarono una sola esigenza, «d’ordine fiscale»: un trattato di capitolazione «stipulato nella debita forma con le autorità religiose». Tale trattato, in cambio della riscossione delle imposte eseguita dai notabili delle diverse comunità, garantiva «la libertà di culto e il proseguimento dell’attività economica».
Sia i musulmani sia i cristiani – è la constatazione da cui parte adesso Luigi Andrea Berto – «permisero ai sudditi appartenenti alla fede dei dominati di continuare a praticare la propria religione a patto che essi accettassero la loro inferiorità». I dominatori tuttavia «crearono sistemi diversi basati su differenti forme di legittimità». Quello ideato dai fedeli dell’Islam era stabilito dal Corano e aveva pertanto un fondamento religioso. In quello dei regni cristiani, i sudditi musulmani rientravano nella categoria dei «servi del re». Erano così posti, scrive Berto, sotto la diretta protezione dei sovrani al riparo dagli abusi. Però tale status sottolineava la loro totale dipendenza dalla volontà dei governanti, con i quali dovettero quasi sempre negoziare diritti e doveri. E li rese legalmente soggetti a «occasionali drastiche decisioni dei sovrani».
Il tema dei rapporti tra devoti alla Chiesa di Roma e islam è già stato analizzato da Bartolomé e Lucile Bennassar in I cristiani di Allah (Rizzoli), da Amedeo Feniello in Sotto il segno del leone. Storia dell’Italia musulmana (Laterza). Ma anche da Alain Ducellier in Cristiani d’Oriente e islam nel Medioevo: secoli VII-XV (Einaudi) e da Bat Ye’or in Il declino della cristianità sotto l’islam. Dal jihad alla dhimmitudine (Lindau). Il quadro complessivo di Berto coincide nelle linee fondamentali con quello di questi libri. Con un’attenzione particolare, però, alla non idealizzazione del quadro complessivo che si ha quando viene presentato «un immaginario mondo di pacifica convivenza e di proficua multiculturalità». Coloro che seguivano la religione dei dominatori e quelli professanti la fede dei dominati condussero perlopiù «vite separate» ancorché «comunicanti». Per la maggior parte del tempo i rapporti furono pacifici e, «pur rimanendo rilevanti differenze di trattamento e un certo grado di sdegnosa superiorità dei primi verso i secondi», i divieti e le discriminazioni riguardanti i «sudditi di seconda classe» non ebbero di solito un fortissimo impatto sulle politiche dei governanti e sulla vita quotidiana.
Ci sono state molte città che potremmo definire «capitali della convivenza». Ne hanno parlato Philip Mansel in Levante. Smirne, Alessandria, Beirut: splendore e catastrofe nel Mediterraneo (Mondadori) e Mark Mazower in Salonicco, città di fantasmi. Cristiani, musulmani ed ebrei tra il 1430 e il 1950 (Garzanti). Queste esperienze hanno indotto molti studiosi ad attribuire a una religione, periodo e popolazione una «speciale e insita predisposizione per la convivenza pacifica e la tolleranza nei riguardi di sudditi di religione diversa la cui inferiorità, pure, fu determinata legalmente». Queste conclusioni secondo Berto non sono «corrette» dal momento che tali atteggiamenti «furono il prodotto di ben particolari circostanze economiche, sociali, demografiche e politiche». Allo stesso modo, sempre secondo Berto, è troppo «riduttivo» ricondurre l’esistenza di tolleranza e convivenza pacifica al concetto di «convenienza». Una spiegazione del genere «attribuisce agli esseri umani un comportamento troppo meccanico… in un campo estremamente articolato, dove la relazione tra quei fattori non è sempre ovvia e immediata».
Si può ragionevolmente dire – secondo Berto – che «avendo i sudditi di seconda classe accettato la condizione di inferiorità, rispettato i provvedimenti meno discriminatori, evitato di ostentare l’eventuale ricchezza e coltivato buoni rapporti con le autorità», gli appartenenti alla fede dei dominatori «li avevano il più delle volte ignorati». O «avevano avuto relazioni non conflittuali e talvolta collaborato, condiviso credenze e luoghi e festeggiato con loro riconoscendo così più o meno implicitamente che una comunità trae vantaggio dall’assenza di tensioni e scontri».
Berto definisce «insostenibile» la posizione di chi attribuisce a una religione, popolo ed epoca una particolare tendenza all’intolleranza e alle persecuzioni. Cristianesimo e islam sono religioni monoteistiche e perciò stesso «non inclusive». I fedeli delle due religioni ritengono, gli uni e gli altri, di venerare l’unico vero Dio. Scorrendo le pagine della loro storia troviamo, soprattutto fra i leader religiosi, musulmani e cristiani estremisti «che non si limitarono a sottolineare quella nozione», ma rimarcavano fortemente anche la «falsità» della religione degli altri. E mettevano in risalto quanto essi fossero pericolosi per i propri fedeli, dal momento che «contaminavano i riti e lo spazio sacro della vera fede», insidiando i «veri credenti». Gli estremisti vollero spesso la ferrea applicazione delle leggi che riguardavano i sudditi di religione diversa, la loro segregazione, in qualche caso la loro eliminazione. In particolare, in occasione di crisi economiche, epidemie, catastrofi naturali e sconfitte.
Più gravi erano state le crisi, maggiore era la necessità di trovare un capro espiatorio. In tali circostanze eccidi e saccheggi a danno dei sudditi di religione diversa non mancarono né nella Casa dell’islam né nei regni cristiani. Si verificarono in particolare «quando le autorità centrali erano deboli e non potevano pertanto assicurare il mantenimento dell’ordine interno».
Consolidate le conquiste, i musulmani seguirono il precetto del Corano attribuendo ai sudditi cristiani ed ebrei lo status di dhimmi («popolo del patto») assicurando loro protezione e libertà di culto. I dhimmi, dai dieci anni in su, erano tenuti a versare una tassa denominata giza, la cui entità dipendeva dal reddito. I governanti cristiani imposero ai sudditi musulmani una tassa assai simile. In più stabilirono che ai musulmani non si doveva rubare. Privarli con la forza delle loro proprietà era considerato riprovevole. Di più: chi compiva questo genere di azione, veniva sanzionato e costretto a pagare il doppio del valore di quanto aveva sottratto alla vittima del furto. Gli islamici – come si è detto – venivano considerati proprietà del sovrano e denominati servi regis. Una definizione che Berto definisce «ambigua» dal momento che poneva questi individui «in una condizione tra la servitù e la schiavitù». Essi erano in ogni caso sotto la speciale protezione del re. Furono stabilite pene certe e ben determinate per chi faceva loro danno. Non erano soggetti alla «giustizia dei signori delle terre in cui vivevano» e perciò non potevano essere arrestati e condannati a morte senza il consenso del sovrano.
Durante il primo periodo di conquista cristiana dell’Andalusia, i crimini di rilevanza penale tra musulmani finivano nei tribunali islamici con la supervisione di un funzionario regio affinché il colpevole fosse catturato e la sentenza fosse eseguita in modo «appropriato». Ai musulmani non era infatti concesso di eseguire punizioni corporali e sentenze capitali. Inoltre, essi preferivano non occuparsi direttamente di crimini commessi da malviventi. Nel Quattrocento i mudejares della regione valenciana furono ben contenti di lasciare agli ufficiali cristiani il compito di arrestare e processare quindici musulmani che, entrati con la forza nella casa di una vedova (loro correligionaria), l’avevano violentata insieme alla figlia.
Ci furono ovviamente numerose eccezioni a questo regime di convivenza della quali abbiamo detto all’inizio. Ad esempio, scrive Berto, le violenze cristiane in Sicilia contro la comunità musulmana nel XII secolo. Nell’isola durante quei cento anni si nota il costante aumento del numero dei cristiani, la crescente invidia nei riguardi di artigiani e contadini musulmani benestanti. E anche il diffuso malcontento per l’utilizzo nell’amministrazione regia di personale non proveniente dall’aristocrazia e di eunuchi convertitisi al cristianesimo, ma sospettati di continuare a praticare l’islam. L’indebolimento, negli anni Cinquanta, dell’autorità di re Guglielmo II, detto «il buono», creò le condizioni per l’esplosione di un moto di rabbia anti islamica. All’assassinio, a Palermo, del maggiore consigliere del sovrano nel novembre del 1160, seguì nel marzo dell’anno successivo l’assalto del palazzo reale da parte di una folla di cristiani guidati da alcuni nobili. Guglielmo fu fatto prigioniero, l’archivio regio fu distrutto e «si scatenò una caccia all’uomo contro gli eunuchi di palazzo». Caccia all’uomo che «si estese ben presto alle strade e alle case di Palermo contro qualsiasi musulmano». I fedeli dell’Islam si ritirarono in un quartiere periferico della città dove, approfittando di vie assai strette, riuscirono a opporsi efficacemente ai cristiani. Il paradosso fu che i musulmani si rifugiarono nel sud-ovest dell’isola, un’area per loro di maggior sicurezza proprio perché caratterizzata da un alto numero di proprietà controllate dal re. Poi furono un nutrito gruppo di aristocratici che liberarono il re e riportarono i musulmani nelle città. Palermo compresa. Infine, quando Guglielmo II morì – nel 1189, all’età di trentasei anni – ecco che ci fu una stagione di nuove brutalità contro i musulmani palermitani. Una vicenda che impressionò Dante Alighieri il quale decise di premiare re Guglielmo collocandolo addirittura nel XX canto del Paradiso.