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 2022  dicembre 06 Martedì calendario

Biografia di Simone Moro raccontata da lui stesso

Di nuovo in partenza?
«Sarà una spedizione all’insegna del 5. Ho 55 anni, per la quinta volta tento il Manaslu, se ci riesco sarà il mio quinto Ottomila invernale, 25 anni dopo la tragedia sull’Annapurna». Il punto di forza dell’alpinista Simone Moro è la sua mentalità matematica. Per l’intervista dà appuntamento alle 9.50 («Prima vado a correre»). Alle dieci meno dieci in punto sbuca dall’ultima curva sotto casa, sulle colline di Bergamo, da cui si ammira una corona di cime fino al Monte Rosa. Andare oltre i limiti, ma con razionalità, è il segno della sua carriera.
Con il Manaslu ha un conto in sospeso.
«Con lucidità devo riconoscere che nei quattro tentativi precedenti, tre mesi per ognuno, quindi un anno della mia vita, sono riuscito ad arrivare solo a 6.200 metri, un tragitto che in genere compio in tre ore. Il Manaslu è considerato uno dei più facili in stagione propizia, questo spiega bene quanto cambino i giochi se si va d’inverno».
Sarà la sua 72esima spedizione, 22 delle quali nella stagione fredda.
«Nell’ottobre 1992 feci la mia prima sull’Everest, tra l’altro non andò bene perché mi sentii male. Di questi trent’anni, ne ho passati 18 nei luoghi più alti, più remoti, più freddi, potenzialmente più ostili del pianeta. E più di 5 a temperature tra i -10 e -70 gradi. Essere vivo oggi è il vero risultato di cui vado fiero. E in più avere tutte le dita delle mani e dei piedi».
Il segreto?
«È innegabile che ho avuto una giusta dose di fortuna. Però, se io fossi stato uno che giocava tutto sul la va o la spacca, adesso non sarei qui. Bisogna mettere in conto sin dall’inizio che ci saranno tante rinunce e fallimenti. Non a caso Messner dice che l’alpinismo d’alto livello è l’arte del sopravvivere, non quella di scalare».
Lei cita spesso anche un altro grande del passato, Riccardo Cassin.
«Quando iniziai venni sponsorizzato dalla sua azienda. Una volta, accompagnandomi tra gli scaffali, mi ammonì: “Per te non sarà difficile diventare un grande alpinista, ma un grande vecchio alpinista”. E me lo disse uno che è morto a 100 anni. Diciamo che sono riuscito a sopravvivere all’irruenza dei vent’anni, quando ti senti immortale e invincibile».
Il primo ricordo della montagna?
«A sei anni, il sentiero delle Orobie fatto con mio padre Franco. Semplice escursionismo».
La prima scalata?
«A tredici anni, i Torrioni della Cornagera in Val Brembana. Mio padre lavorava in banca, non era uno scalatore, fece il corso roccia del Cai per potermi seguire. Un giorno gli dissi che volevo abbandonare la scuola per dedicarmi all’alpinismo. Mi rispose: “Se questo è il tuo limite”. Io non capivo. Aggiunse: “Se puoi fare solo una cosa delle due, è questo il tuo limite”. Compresi la lezione, mi sono diplomato, poi laureato e ho seguito lo stesso il mio sogno».
Chi era il suo modello di riferimento?
«Messner era il mio faro, conoscevo e leggevo tutto su di lui. All’età di quindici anni, visto che c’era chi metteva in dubbio la sua impresa sul Sass dla Crusc, gli mandai una lettera scrivendogli che io non avevo dubbi e mi offrivo per rifarla con lui. Mi rispose con una cartolina, ovviamente per dirmi che non era possibile. Dopo lo incontrai un paio di volte in occasione di conferenze, finché non siamo diventati grandi amici. Al suo ultimo matrimonio io e Peter Habeler eravamo gli unici alpinisti invitati».
Che ambiente è il vostro? C’è più solidarietà o rivalità?
«È un mondo poco incline ad apprezzare i virtuosismi e le celebrità. Altri sport, come il calcio o il golf vivono di questo, invece nella nostra piccola comunità si pensa che diventare famoso significa mercificare un ambiente sacro. Gli alpinisti pensano che la montagna sia il loro club, il loro piccolo orticello. E il montanaro in genere è una persona abbastanza rancorosa, incline al conflitto e alle gelosie. La notorietà e la fama vengono accettate a fatica».
Chi l’ha delusa di più?
«Se dovessi dire il luogo dove ho più nemici, direi la mia città. Per fortuna non ho mai cercato di piacere a questa gente. I miei genitori mi hanno insegnato che bisogna togliersi il cappello davanti a chi è più bravo di te. Sono stato educato al rispetto e alla stima verso gli altri, ingenuamente ho pensato che fosse un’educazione universale. Essere capace di parlare e scrivere nel mio mondo è visto come se fosse una colpa».
E quando si è in cordata?
«In montagna si è tutti sulla stessa barca e bisognare remare insieme. Allo stesso tempo dico che la montagna non eleva e non cambia le persone. Se sei cattivo in città, lo sei anche in vetta. La montagna può essere una bella scuola, ma ci sono tanti bocciati. E ce ne sono sempre di più, perché sono aumentati i frequentatori».
Lei ha ricevuto la Medaglia d’oro al valor civile dopo l’incredibile salvataggio di uno scalatore inglese sul Lhotse.
«È un onore e una responsabilità. È la più alta onorificenza della Repubblica, mi dà un piacere immenso, anche se rimanere un simbolo da vivo è durissima. Non sono incline alla santità».i
Abbandonò la sua scalata e rischiò la vita.
«Ho fatto uno sforzo fisico che ancora adesso faccio fatica a spiegarmelo».
Il momento più difficile in questi trent’anni?
«Il giorno di Natale del 1997, sull’Annapurna. Siamo partiti in tre, sono tornato a casa solo io. Non avevo mai scalato un Ottomila d’inverno, la parete sud era inviolata, c’era tantissima neve, cadevano valanghe tutti i giorni. Non dico che fu un azzardo, ma una perseveranza stupida. Con l’esperienza che ho acquisito, oggi rinuncerei prima. Se fossimo tornati indietro avrei con me Anatolij Bukreev, il più grande amico che ho avuto e uno dei più grandi alpinisti della storia».
Vi travolse una valanga, morì anche Dmitrij Sobolev. Lei venne salvato con un elicottero.
«Secondo me è nata lì, in maniera inconsapevole, la voglia di fare qualcosa. In quel momento ho deciso che avrei ripagato la fortuna che avevo avuto. In Himalaya non esiste un equivalente del Soccorso alpino, non c’è un’organizzazione. Non poteva continuare così, non solo per aiutare gli alpinisti in difficoltà, ma anche la mamma nepalese che deve partorire o l’anziano che ha una frattura. Ho pensato: io del Nepal conosco ogni sasso, se divento pilota di elicottero posso fare la differenza».
Ed è diventato il suo secondo lavoro.
«Tutti gli anni dedico alcuni mesi della mia vita a fare soccorso in Nepal. Ho effettuato tanti salvataggi, sono atterrato a 7.000 metri, una volta mi è nato un bambino a bordo».
E in Italia?
«Ho una società e faccio varie cose, anche vivere momenti privati sorvolando le montagne con coloro che vogliono sentire la mia narrazione. E credo anche di aver contribuito a far amare un po’ più questo mezzo. Che è come l’alpinista famoso, va odiato a prescindere, è visto come una cosa da vip o da ricchi. È l’angelo che viene dal cielo solo quando è per il soccorso, tutti gli altri vanno abbattuti».
Cosa fa Simone Moro nel tempo libero?
«Sto il più possibile con i figli, Martina che ha 23 anni e Jonas di 12 che vive con la mamma. Nella vita personale ho fatto un po’ di casini».
Ha anche un asino.
«Si chiama Baloss, in bergamasco significa furbo. E ho pure 9 capre. In futuro mi piacerebbe avere una cascina».
Torniamo agli Ottomila, ormai sembrano diventati un circo: code in vetta, grandi interessi economici.
«La tragedia del 1996 sull’Everest (8 morti, ndr) non solo non è stato un monito, anzi forse è stato l’inizio di una nuova era di proposta turistica d’alta quota. È un fenomeno che prima era in mano solo agli occidentali, mentre oggi è quasi esclusivamente gestito dalle popolazioni locali, e questo è comunque un bene perché porta risorse in quelle zone. Ormai ai campi base ci sono letti, il bar con gli alcolici, la bakery che sforna pane e dolci, tende riscaldate con la moquette. Ad alcuni fanno fare il corso di alpinismo direttamente lì, una montagnetta intermedia e poi li portano sull’Ottomila. Non è questo il mio modo di fare alpinismo. Ho sempre scalato in due, massimo tre persone, senza farmi preparare la via da sherpa e niente ossigeno, a parte per l’Everest dove vorrò tornare senza. Sul Makalu nel 2009, con Denis Urubko, ho fatto la più leggera invernale della storia. Ci prendevano in giro, è stata una pietra miliare».
C’è ancora spazio per un alpinismo più romantico?
«Io sono ottimista sul futuro, perché adesso è veramente chiaro ciò che sta avvenendo sulle vie normali degli Ottomila con le spedizioni commerciali. Ci sono però tanti giovani preparati, anche italiani, che stanno facendo alpinismo esplorativo. Magari sono poco conosciuti, perché si dedicano poco alla narrazione».
Ha anche condotto il reality «Monte Bianco».
«Il pregio di quel programma, pur negli evidenti limiti che ha mostrato, è che per la prima volta si è riusciti a portare la montagna in prima serata. Il mio mondo però, invece di apprezzare lo sforzo che ho fatto per tamponare certe scelte, l’ha preso come se fosse un corso di roccia televisivo e ha fatto la lista di tutte le cose che non andavano bene».
Lo rifarebbe?
«Mi piacerebbe condurre una trasmissione che raccontasse storie e luoghi, una versione attuale dei reportage di Bonatti. Non dovrebbe essere l’apoteosi del no limits o dell’estremo, una parola che io non uso mai»
Per quale motivo?
«Perché è stata abusata. L’estremo è andare tutte le mattine alle 5 al lavoro, convivere con una malattia o con la povertà. Tutto ciò di pericoloso che noi alpinisti facciamo è per una nostra scelta».