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 2022  dicembre 05 Lunedì calendario

Intervista a Edi Orioli. Parla della Parigi-Dakar

Edi Orioli è stato il primo italiano a vincere la Parigi-Dakar, nel 1988, quando la maratona africana era il grande evento che richiamava campioni di F.1 come Jacky Ickx, attori del cinema come Renato Pozzetto, personaggi illustri in cerca d’avventura e persino la Principessa Carolina di Monaco.
Edi l’ha vinta di nuovo nel 1990 con la Cagiva con motore Ducati, oggi regina della MotoGP. Non pago si è aggiudicato ancora due edizioni, nel ’94 e ’96 e ha corso pure tre volte in auto, per un totale di 15 partecipazioni prima che la Parigi-Dakar così come la conoscevamo finisse con la cancellazione della edizione 2008 per il pericolo terrorismo, per trasferirsi in Sudamerica e dal 2020 in Arabia Saudita.
Oggi, a 60 anni, Edi Orioli è un imprenditore affermato, l’azienda di pergole e tende da sole che gestisce insieme al fratello va a gonfie vele. La moto per lui è un hobby, molto praticato perché gli piace macinare chilometri.

Eppure alla Dakar tornerebbe, ma solo con una moto «buona».
«Vorrei un mezzo non dico per puntare alla vittoria, perché sarebbe impensabile, ma per difendermi. Non dire c’ero anch’io. Le condizioni per far questo non ci sono ed è meglio così, perché non è più la mia corsa. Più la guardo, la Dakar di oggi, e meno mi piace. Non c’è paragone con quella che facevamo noi».
Quella era vera avventura.
«Innanzitutto c’erano tappe lunghissime, sconosciute a tutti. E si navigava con la bussola, non con gli strumenti tecnologici di oggi che ti indicano la strada. La gara sarà più sicura, ma lo spirito di avventura si è completamente perduto. Noi dormivamo per terra, chiedevamo informazioni ai tuareg, ogni giorno era una scoperta perché anno dopo anno i percorsi erano sempre diversi: Thierry Sabine, inventore della gara, diceva: io vi ho aperto le porte del deserto, ora sta a voi sfidare il destino».
Tu lo hai sfidato per 15 volte.
«Ho tenuto il conto, seppure approssimativo, dei chilometri che ho fatto in gara in Africa e ho superato i 220.000. A un certo punto mi sono anche detto che dovevo smetterla di andare a rischiare correndo a 200 all’ora su piste di sabbia, ma poi era più forte di me. Ci tornavo sempre».
È stata una gara molto discussa.
«Quando partecipavano i vip di turno giornali e TV erano entusiasti, perché avevano qualcosa da raccontare, e se ci scappava la disgrazia giù fiumi di inchiostro. Ma senza afferrare cosa significhi attraversare il deserto del Ténéré in moto da soli».

Trovare la strada nel deserto era la tua specialità.
«Una dote naturale. Mi sono subito trovato bene con la navigazione, tracciando rette immaginarie, orientandomi col sole. Se la tappa va verso sud, non puoi pretendere una pista che va verso ovest, ma molti questo errore lo facevano. La capacità di orientarmi mi ha permesso di vincere tappe da 800 chilometri che sono quelle che amavo di più. Prendevo il passo giusto la mattina e lo tenevo fino a sera, cercando di rischiare il meno possibile. Addirittura ho fatto un paio di Dakar senza mai cadere».
Arrivare al traguardo dopo più di 10.000 chilometri era già una vittoria.
«Arrivare sulle rive del Lago Rosa in Senegal e da lì in convoglio a Place de l’Independance in centro a Dakar, era una grande emozione. Sono felice di avere vissuto quei momenti e quell’epoca».