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 2022  dicembre 05 Lunedì calendario

Intervista a Jenny Chan. Parla delle proteste in Cina

In Cina c’è un clima esplosivo. A Canton, Pechino, Shanghai, centinaia, talvolta migliaia, di persone hanno protestato contro la politica “zero Covid” praticata dal governo ormai da quasi tre anni. I primi a dare voce al malcontento, a metà ottobre, sono stati i lavoratori dello stabilimento Foxconn di Zhengzhou, nell’Henan, dove si producono gli iPhone. La sociologa Jenny Chan, docente all’Istituto Politecnico di Hong Kong, autrice di una tesi di dottorato su Foxconn nel 2010, è specialista di questo sito, una sorta di città-fabbrica, che conta fino a 300.000 dipendenti.
Il fatto che la protesta sia nata nella fabbrica Foxconn, può indicare una maggiore maturità delle rivendicazioni del mondo operaio in Cina?
La protesta è innanzi tutto il segno dell’esasperazione dei cinesi nei confronti delle misure anti-Covid. Gli operai hanno rivolto la loro rabbia contro le telecamere di sorveglianza e le cabine per tamponi, non hanno distrutto gli strumenti necessari alla produzione. Inoltre gli operai non possono contare su nessuno. I sindacati sono assenti. È interessante notare come, malgrado il governo faccia di tutto per stringere i controlli sulla società e ridurre gli spazi di espressione, il movimento sia riuscito lo stesso a ottenere una grande visibilità su internet. I lavoratori hanno utilizzato le piattaforme online come Bilibili e Douyin per diffondere video e documenti, compresi gli ultimi contratti di Foxconn, con l’indicazione degli stipendi e le eventuali detrazioni per il cibo, l’alloggio e la previdenza sociale. Numerosi video sono circolati su Twitter, anche se in Cina il social è bandito. Non si può escludere che gli operai abbiano fatto ricorso a VPN, strumenti informatici che prima erano appannaggio di intellettuali, attivisti e ceti medi. Poter filmare gli eventi, restituire la realtà tramite i live streams è una svolta. Nulla di tutto questo accadeva nel 2010, quando indagavo su suicidi nella fabbrica Foxconn di Shenzhen. Questa volta, gli operai filmano gli scontri in diretta dalle finestre dei loro dormitori al settimo e ottavo piano. Malgrado la censura su internet e nei media ufficiali, le notizie continuano a circolare.
E la rabbia si è diffusa al di là della classe operaia…
Dopo l’incendio di Urumqi, nello Xinjiang, in cui sono morte dieci persone perché i soccorsi sono arrivati troppo tardi a causa delle restrizioni legate al lockdown, proteste “spontanee” sono scoppiate in tutta la Cina, malgrado i numeri dei contagi non siano mai stati così alti, con più di 30.000 nuovi casi al giorno in tutto il Paese, e sono arrivate fino a Hong Kong, in particolare nel campus della Hong Kong University. Ovunque si sentono gli stessi slogan. Nella Cina continentale, le autorità hanno reagito con la repressione. A Shanghai hanno vietato l’accesso alla via Urumqi per evitare nuove proteste. La mobilitazione online si è spostata nelle fabbriche e nelle piazze. Questi eventi meritano di essere studiati molto bene, perché malgrado la censura, il web cinese è un luogo di confronto e dibattito in cui si esprime anche lo Stato, che intende affermare la sua “verità”. La direzione di Foxconn si è sentita in dovere di presentare delle scuse, e ovviamente lo ha fatto online. Se i movimenti sembrano “spontanei”, si affidano in realtà a forme di solidarietà che sfuggono al Partito-Stato: i lavoratori spesso si riuniscono in funzione dei loro luoghi di origine e condividono dormitori che accolgono fino a dodici persone. La loro rete è poco coordinata e nessun leader emerge, ma queste piccole forme di solidarietà possono consolidarsi rapidamente quando i lavoratori si confrontano alle ingiustizie e vivono l’esperienza comune della lotta. D’altra parte, non credo che ci sia una maggiore maturità della classe operaia. Possiamo davvero parlare di coscienza di classe? Già più di dieci anni fa avevo potuto constatare che i lavoratori conoscono bene i propri diritti: già all’epoca alcuni non esitavano a rivolgere petizioni al governo locale, per esempio quando non percepivano l’indennità di licenziamento, ancora oggi un grosso problema in Cina. Il cambiamento maggiore ora è dovuto ai tre anni di politica “zero Covid” che, se all’inizio ha salvato vite umane, ha anche contribuito a peggiorare le condizioni di vita della popolazione e di lavoro nelle fabbriche. Da una parte, gli operai non vengono informati sui rischi della pandemia e vivono confinati in piccoli dormitori. La loro sola libertà è l’uso del cellulare. C’è un clima malsano, psicologicamente e fisicamente. Dall’altra parte, Foxconn non è in grado di garantire la sicurezza sanitaria sui luoghi di lavoro e Apple è ossessionato dai tempi di consegna degli iPhone con l’avvicinarsi del Natale. Le autorità locali, che dovrebbero garantire i diritti fondamentali dei lavoratori, sono soggette a molteplici pressioni, da parte delle aziende e dei vertici dell’amministrazione.
Delle proteste potrebbero scoppiare anche in altre fabbriche, in altre regioni della Cina?
Non ci sono molti altri stabilimenti in Cina che impiegano fino a 300.000 lavoratori. La fabbrica Foxconn di Zhengzhou è una città nella città. Ma il malcontento si è già espresso in altri siti industriali, come a Shanghai, soprattutto a aprile e maggio, dove diverse aziende avevano fatto ricorso a metodi di gestione quasi carcerari. Negli stabilimenti di Quanta, un altro fornitore di Apple, 3M e Tesla, alcuni dipendenti avevano dormito sul pavimento. Si assiste ad una vera e propria disumanizzazione delle condizioni di lavoro. Le misure anti-Covid prese nelle aziende sono dettate dalla necessità di mantenere la produzione, anche se queste “bolle” che dovrebbero isolare i luoghi di lavoro di fatto finiscono col diventare porose. Assistiamo ad un movimento di rivolta contro la politica “zero Covid” che “imprigiona” gli operai nelle fabbriche, così come gli studenti nelle università e i cittadini nelle case. Il malcontento è generale e non vedo come possa placarsi se il governo non si decide a riporre più fiducia nella responsabilità dei cittadini e delle amministrazioni locali.
Tornando agli eventi di Zhengzhou, a chi vanno attribuite le responsabilità?
Tutto sembrava tornare alla normalità dopo che migliaia di lavoratori erano fuggiti in seguito ai primi casi di Covid registrati a ottobre. Alcuni dipendenti, appena assunti, avevano cominciato a lavorare, mentre gli altri aspettavano nei dormitori di essere testati negativi al Covid. Quando, il 22 e 23 novembre, sono scoppiati gli scontri violenti che hanno coinvolto operai, polizia e direzione della fabbrica, tutti sono stati colti di sorpresa. Ben presto, però, ci si è resi conto, tramite i social, che i lavoratori appena assunti si lamentavano per le condizioni di vita nei dormitori, soprattutto per i rischi di contagio con i lavoratori già presenti sul posto. Quando Foxconn ha chiesto ai nuovi arrivati di firmare un contratto che non corrispondeva alle condizioni concordate in precedenza, la frustrazione si è trasformata in rabbia. Gli operai si sono sentiti imbrogliati, in particolare gli interinali, costretti a firmare fino a metà marzo, invece di metà febbraio, e di aspettare fino a maggio per ottenere il secondo pagamento di tremila yuan, più di 400 euro, di un bonus promesso dall’azienda. Di fronte al malcontento, Foxconn ha chiamato la polizia antisommossa e gli operai recalcitranti sono stati picchiati brutalmente. Sul web abbiamo visto volti coperti di sangue. Ai manganelli e ai lacrimogeni degli agenti, vestiti con la tuta protettiva bianca, i lavoratori hanno risposto distruggendo le telecamere della video sorveglianza e le cabine per tamponi, dando fuoco ai cassonetti della spazzatura e ribaltando un’auto della polizia. Per me è evidente che si difendevano dagli abusi della polizia e reagivano alle menzogne della direzione di Foxconn, che non ha trovato nulla di meglio che evocare “un errore informatico” nella redazione dei contratti. Ormai il danno era fatto. Di qui la proposta dell’azienda, il 23 novembre, di offrire un risarcimento di 10 mila yuan a chi decidesse di lasciare il sito. Si sa che Foxconn mantiene a fatica le promesse. Ma questa volta i neoassunti, prendendo il coraggio a due mani, hanno deciso che non sarebbero andati via a mani vuote.
(Traduzione di Luana De Micco)