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 2022  dicembre 05 Lunedì calendario

Biografia di Rita Rusic raccontata da lei stessa

Negli anni ’90, era la produttrice cinematografica che rendeva oro tutto ciò che toccava, tipo Leonardo Pieraccioni, tipo Vincenzo Salemme, Giorgio Panariello. Era l’epoca dei tappeti rossi, dei jet privati, della notte degli Oscar con Il Postino di Massimo Troisi. Poi, arrivarono il divorzio da Vittorio Cecchi Gori, breve oblio, foto perenni a Miami Beach, in bikini, accanto a giovani belli e palestrati.
Che vita fa oggi Rita Rusic?
«A Miami, non sono stata solo in spiaggia: ho preso la laurea in regia alla New York Film Academy, tutti i giorni in aula con studenti di vent’anni. La prima lezione era: quali sono gli elementi più importanti di un film? Primo, la storia. Secondo, la storia. Terzo, la storia. Insomma, io che ho prodotto 150 film, tra firmati e non firmati, sono ripartita dalle basi».
Se la sua vita fosse un film, quale sarebbe la prima scena?
«Saremmo sulla collina di Kastellir, piccolissimo paese dell’Istria, il mare in lontananza. Con mia mamma che mi ha appena partorito e mi mostra ai paesani, tenendo me in braccio, mia sorella per mano. Poi, si avvicina la picchiatella del paese e le dice: questa bimba andrà lontano, non starà qua, diventerà famosa».
Cosa facevano i suoi a Kastellir?
«Si erano sposati giovanissimi, mamma si occupava di noi figlie, papà suonava sassofono e clarinetto, insegnava musica, faceva un po’ di teatro e, per sopravvivere, sculture di marmo. Ma chi vuole che comprasse sculture a Kastellir? Per cui, scolpiva lapidi da morto».
Immagino non ricordi di quando, profuga a quattro anni, partiste per l’Italia.
«Ho chiara l’immagine di mamma e papà che ci dicono di non parlarne con nessuno e di tutti noi che partiamo, con due valigie di cartone e le nonne vedove che ci accompagnano alla corriera per Trieste e piangono».
Si ricorda anche del campo profughi?
«San Saba era stato un campo di concentramento, ci misero in una stanza coi materassi per terra ancora sporchi di sangue. Io dissi: non ci dormirò mai. Ma di recente, la figlia dell’uomo che ci accompagnò lì, mi ha raccontato che mia sorella continuava a dire “è tutto brutto” e che io continuavo a risponderle: sì, ma indietro non dobbiamo tornare».
Col senno di poi, perché lo diceva?
«Passando per Trieste, avevo visto per la prima volta una città. A me che venivo da un posto con due alberi e due frasche, parve il futuro. Avevo già il desiderio di andare sempre avanti».
Dopo il campo profughi?
«Otto anni di collegio dalle suore a Roma. Poi la famiglia si è riunita a Busto Arsizio, dove ci hanno assegnato una casetta per rifugiati. Avevo 14 anni, Busto mi andava stretta e m’inventai una scuola che era a Milano: odontotecnico. In quel 1974, a scuola, c’erano quelli di Autonomia Operaia e quelli delle bande armate. La mattina, qualche compagno mi diceva: hai visto il tuo amico? E mimava i polsi con le manette».
E lei non rischiò mai di darsi all’eversione?
«Sono nata troppo povera per non capire che era pericoloso».
Dopo, arrivano la moda, le sfilate. Quando ha capito che la bellezza poteva darle un potere?
«Già in collegio: piacqui così tanto alla moglie del direttore che mi prese sotto la sua ala. Mi fece fare la cresima con Paolo VI, mi portava sacchi in pannolenci pieni di regali».
Il brutto del collegio?
«Fare le scale per andare a letto. Ci facevano cantare “quando è l’ora di fare la nanna, i bravi bambini lasciano i giochi e vanno da mamma”. Come fai a farla cantare a dei bimbi con la mamma lontana?».
La moda, il cinema, sono stati una fuga, un sogno o che altro?
«Un sogno. Lessi che tali Miranda e Nicole cercavano modelle. Essendo donne, pensai non ci fosse pericolo e mi presentai. Mi offrirono un provino per la sigla di Discoring. Fu imbarazzantissimo: c’erano Donna Summer e Renato Zero, un tizio mi disse: mettiti lì e balla. Dico: ma senza musica? E lui: la musica è nella tua testa. Ballai e mi presero».
Arriva prima l’incontro col cinema o con Vittorio Cecchi Gori?
«Facevo la modella, studiavo Medicina, andavo sempre in un ristorante dove andava anche l’assistente di Adriano Celentano. E lì iniziarono a girare Asso, con Celentano e Edwige Fenech, e conobbi Vittorio, che m’invitò subito a un festival a Buenos Aires. Non andai».
Lui le piacque?
«Come bellezza, no, ma era simpatico, mi faceva ridere, ed era un po’ infantile, anche se aveva 18 anni più di me. E mi lusingava che fosse produttore e mi avesse scelta per corteggiarmi».
Quando interpretò Uraia in Attila Flagello di Dio eravate già fidanzati?
«Sì, ma fui presa non perché mi proposi, ma perché Eleonora Giorgi strappò il contratto, Castellano e Pipolo non trovavano un’altra attrice, nel film erano tutti mezzi nudi e dopo settembre non si sarebbe più potuto girare. Dissero a Vittorio “proviniamo Rita”. Lui non voleva, ma l’inverno incalzava. Mi trovai sul set con un bikini di pelo. Ero felice, ma mi sentivo inadeguata. Infatti, dopo, mi misi a studiare recitazione».
Girò una manciata di film, poi lasciò. Perché?
«A Vittorio non piaceva che facessi l’attrice, ma neanche che andassi all’università, in palestra... Ho fatto tre anni di accademia drammatica e studiato inglese, spagnolo, fatto palestra, tutto a casa. Lui era molto possessivo, io molto giovane e abbastanza stupida: mi sentivo gratificata dalla sua gelosia. Molto presto, ho iniziato ad andare in ufficio con lui, non volevo stare a casa e volevo capire cosa fa un produttore. Alcuni interlocutori erano imbarazzati dalla mia presenza, ma Vittorio era fermissimo. Diceva: se parli con me, parli anche con lei».
Vi sposaste in due anni.
«Andando in chiesa, volevo scappare: avevo paura di non trovarlo dentro».
Quand’è che suo suocero dice «quella mio figlio se lo mette in saccoccia»?
«Secondo me, non l’ha mai detto».
Nei 18 anni in cui è stata la signora Cecchi Gori, non ha mai dato un’intervista, eppure, negli anni ’90 esplode una «Rusic Mania», è la scopritrice di talenti, arrivano premi, copertine.
«Forse la crisi con Vittorio inizia quando, ricevendoci, l’ambasciatore francese disse: l’allieva che supera il maestro. Capii subito che era la fine. I litigi cominciarono dopo la cover di Lady Ciclone, su Sette. Lui iniziò a soffrire il mio successo, come se togliesse qualcosa a lui. Era come dire: è brava la moglie, non lui. Non era vero. Forse come produttore ero più brava io, mi piaceva lavorare col regista, gli sceneggiatori... Ma come imprenditore lui aveva più visione. Io non vedevo competizione, ma compensazione. Lui, invece, iniziò a considerarmi una nemica, non più la donna che eravamo partiti con due film all’anno ed eravamo arrivati a farne 60. Ormai avevamo la Fiorentina, Tmc, case ovunque, aerei privati, andavamo su barche da un miliardo di lire al mese. Era una dimensione non normale e anche le tensioni erano fuori dall’ordinario».
Ricordi sfolgoranti da produttrice?
«Il Leone d’argento a Venezia per il mio primo film, Il toro, di Carlo Mazzacurati. Iniziai col cinema d’autore, con film che vincevano premi, ma non facevano soldi. La scuola di Daniele Luchetti, che vinse il David e incassò, fu la soddisfazione maggiore. E poi ci sono i comici che ho fatto esordire come attori, autori e registi: Pieraccioni, Panariello, Salemme, Albanese».
Suo marito quanto credeva nei nomi nuovi?
«Diceva: lascia perdere quei bischeri, occupati di Paolo Villaggio e Alberto Sordi. E io: me ne occupo, ma i nuovi li dobbiamo trovare».
La separazione fu rissosa e con interventi dei carabinieri.
«Fu orribile. Ricordo quando lessi nello sguardo di Vittorio che per lui non contavo più niente. Sentii che mi voleva annientata».
Ricominciare come fu?
«Lui non volle che lavorassimo insieme. E andai via senza un euro. Ero abituata a autista e guardie del corpo. Oggi mi sembra ridicolo, ma avevo paura a uscire di casa da sola. Il mio numero, il più ambito del cinema italiano, per un anno e mezzo, non ha mai squillato».
Perché andò via senza un euro?
«Ho preso zero e neanche una casa ed è stata un’offesa per tutte le donne che hanno passato anni con un uomo, facendo, lavorando, dimostrando. L’altra vergona è che ci ho messo 17 anni e mezzo divorziare, una violenza terribile. E il divorzio è arrivato quando non c’era più niente: Vittorio era stato arrestato e le società erano fallite. I miei figli non hanno neanche un garage che arrivi dal padre».
Com’è potuto crollare un impero?
«Me lo chiedo anch’io. Valeva quattromila miliardi di lire: se lo fai apposta, non ci riesci».
Oggi, come si mantiene?
«Ho aperto a Miami, con una socia, un concept store sofisticato e di successo, si chiama Violet & Grace lavoriamo ad altre aperture, Roma inclusa. E negli ultimi anni ho raccolto storie da produrre per cinema e serie. Presto prevedo di raccogliere i frutti».
Nel 2008, ha pubblicato con Mondadori «Jet Sex», un «diario erotico sentimentale». Quanto c’era di vero fra sesso su voli privati e infedeltà con i calciatori?
«È come per lo scrittore di gialli, che non è un assassino, ma un potenziale assassino. Io non ho mai nascosto di essere attratta dal sesso, lo trovo bello, giocoso. Sono io che portai in Italia Sex and the city, su Tmc».
Quanti fidanzati giovani ha avuto?
«Qualcuno. Ora sto con un ragazzo di 32 anni, trenta meno di me. È un bellissimo viaggio perché è a termine, il che lo rende intenso».
Come fa ad avere ancora un fisico così tonico?
«È un impegno. Mi alleno, mangio sano. Non mi voglio arrendere: è orribile, ma è così. Mi chiedo sempre: quanti anni buoni ancora ho?».