il Giornale, 4 dicembre 2022
I vent’anni del Mart
Partirei da Mario Botta, l’architetto che, con Giulio Andreolli, vent’anni fa ha concepito il Mart come spazio aperto la cui caratteristica principale è l’illuminazione zenitale, che garantisce un’ampia flessibilità di utilizzo delle aree espositive. Sono quindi i differenti allestimenti temporanei che tracciano di volta in volta i percorsi. Il grande atrio di distribuzione centrale propone differenti scale di lettura e di utilizzo, con l’alternarsi di mezzanini e spazi che in taluni punti si dilatano dal livello di copertura sino al piano interrato e in altri vengono invece compressi con passaggi di altezza ridotta. Nell’alternarsi continuo tra ambienti generosi e passaggi limitati si gioca l’ingresso alle sale espositive, dove la configurazione spaziale più tranquilla, illuminata omogeneamente dall’alto, permette all’opera d’arte di essere protagonista.
Dice Botta: «L’espansione iniziale del Mart dal punto di vista urbanistico, al di là dei programmi auspicati dalle autorità, si può interpretare come premessa potenziale alla sua gestione futura. L’abbattimento – di per sé insignificante – del piccolo tassello di muro che separava corso Bettini (il vero foyer del museo) ha aperto una breccia che rispecchia, a distanza di vent’anni, le dinamiche culturali in corso. Mi piace pensare che l’apertura di quella breccia abbia condotto, dopo l’avvio di Gabriella Belli, alla stagione di Vittorio Sgarbi. I grandi pensieri passano talvolta anche da un innocuo tracciato urbanistico; una chiusura verso la collina può trasformarsi in un nuovo ingresso a un museo. Già con il primitivo impianto il Mart guardava lontano... Non sorprende che, di fronte alle nuove sfide del contemporaneo (che nel frattempo ha scoperto l’attualità del passato), appaia all’orizzonte un personaggio che racchiude in sé speranze e contraddizioni del nostro tempo. Benvenuto Vittorio Sgarbi alla guida del Mart, prototipo di una politica culturale umanistica nata attorno al Mediterraneo con l’introduzione di quei valori solo apparentemente nascosti nelle pieghe della memoria. Vittorio Sgarbi, con quel suo intuito geniale e sorprendente di accostamenti fra segni contemporanei e la memoria del grande passato, ha capito che la realtà del nostro presente può essere opportunamente interpretata».
Lo ringrazio, ma non tutto è stato, nonostante il grande lavoro, così idilliaco. In proposito mi scrive il gallerista di avanguardie Massimo Minini: «Temo avessero ragione... Alla notizia che mi ero a tal punto invaghito delle possibilità che trasparivano dai nostri incontri montani (ma non mondani né di M’Ontani) alcuni amici mi hanno messo in guardia: attento, Quello ti mangia in un boccone. Bene dopo aver ricevuto – finalmente – il libro su Klossowski, lasciami dire che valeva la pena rischiare la pelle per un gioiello così. Libro, non catalogo, benissimo stampato benissimo detto, meraviglie nelle parole. Il più bel libro su Klossowski fatto in Italia. Mi spiace solo che MART abbia perso la maglia nera del peggiore museo italiano. Dobbiamo riconoscere che quella maglia in fondo è stata più importante della maglia rosa. Per essere più chiari, quale è stato votato in quell’anno come miglior museo? Non ricordo. E se chiedi in giro nessuno si ricorda mentre tutti ricordano la gag della maglia nera. Ergo, inventiamone un’altra ma non vorrei sembrare quello che succhia la ruota. Aspetto, non spingo. Sto già spingendo questo bellissimo libro. Grazie Vittorio».
La mostra «Arte e eros» è una delle tante della mia stagione al Mart come presidente. Molti successi, ma anche l’amarezza del giudizio di alcuni che su Il giornale dell’arte hanno giudicato il museo il peggiore dell’anno (il 2021). La mia risposta non si è fatta aspettare. Gli istituti museali, interdetti dall’epidemia, sono stati chiusi molti mesi e hanno prodotto (poche) mostre, a intermittenza; ma i sagaci osservatori (con l’eccezione dei sereni Alberto Fiz, Andrea Bruciati, Paolo Bolpagni) sembrano non essersi accorti che almeno uno, forse l’unico, ha resistito producendo in un anno le seguenti mostre: «Caravaggio. Il contemporaneo»; «Nicola Samorì»; «Luciano Ventrone»; «Giovanni Boldini. Il piacere»; «Leonardo Cremonini/Karl Plattner»; «Picasso, De Chirico e Dalí in dialogo con Raffaello»; «Lino Frongia»; «Botticelli, il suo tempo e il nostro tempo»; «Steve McCurrey»; «Il falso nell’arte. Alceo Dossena e la scultura italiana del Rinascimento»; «Depero New Depero»; «Romolo Romani»; «Herta Ottolenghi»; «Antonio Canova, tra innocenza e peccato»; «Achille Perilli/Piero Guccione», «Nicola Bolla»; «Wainer Vaccari». Questo museo così virtuoso, e così attivo, è naturalmente il peggiore: il Mart di Rovereto. Che io presiedo. Difficile sostenerlo in assoluto, e anche al confronto con tanti musei pubblici che sono rimasti letteralmente fermi. I nemici del Mart hanno antipatia per chi cerca di far vivere il museo, non con opere di Diego Tonus, Emilio Vedova, Jannis Kounellis, Tomaso De Luca, ma con opere (da grandi musei, italiani e stranieri) di Botticelli, Caravaggio, Raffaello, Canova, Picasso, Boldini, per «scelte curatoriali improntate troppo all’arte antica». Troppo. Occorre più moderazione. Che cosa importa se poi, girando per le sale del Mart, ti imbatti in Edward Weston, Man Ray, Irving Penn, Eikoh Hosoe, Dino Pedriali, Robert Mapplethorpe, Helmut Newton, Vanessa Beecroft, Miroslav Tichy, Lisetta Carmi, Lee Friedlander, Bettina Rheimes, Jan Saudek, Joel Peter Witkin, Mustafa Sabbagh, Nadav Kander?
Umberto Alemandi sorride leggendo la sequela di scemenze che ha innescato. Gli piace tanto, nel suo castigato snobismo, il comico docente di archeologia e storia dell’arte musulmana Giovanni Curatola. Sorriderà di meno quando dovrà chiedere sostegno a lui per il suo giornale. Perché avere rapporti con il peggiore dei musei pubblici, il Mart di Rovereto?
Dopo tante contumelie, mi consolo trovando, nel catalogo della donazione di «Vetri veneziani» alla Galleria d’arte moderna Carlo Rizzarda di Feltre, le belle parole di Ferruccio Franzoia, che di Carlo Scarpa fu colto e luminoso allievo: «A Vittorio Sgarbi desidero esprimere gratitudine non solo per le sue brillanti intuizioni critiche, ma anche per l’attenzione che motivatamente rivolge alle realtà marginali e per l’inesausta veemente capacità di indignazione con la quale stigmatizza l’ignoranza diffusa nel bel paese là, dove ’l sì suona». È questo lo spirito con cui abbiamo continuato, per tutto il 2022, a proporre storie e artisti fuori dai prevedibili percorsi; e così, dopo Klossowski, sono arrivati, tra «Simbolismo e Nuova oggettività», gli artisti amati da Emilio Bertonati, e i dimenticatissimi «Pittori moderni della realtà», ma anche il ricercatissimo americano Alex Katz, e l’ultimo grande scultore italiano, Giuliano Vangi, in dialogo con Giovanni Pisano, Tino di Camaino, Donatello e Michelangelo. Non ci siamo fatti mancare, nel fuoco delle polemiche, Julius Evola; e ora si continua con gli «Eretici, arte e vita», in cui si affiancano a Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene, artisti fuori quota come Mattia Moreni, Giannetto Fieschi, Sergio Vacchi, Sylvano Bussotti, Nan Goldin. E, risalendo alla origine del museo, nella concezione della fondatrice, Gabriella Belli, la ricostruzione di un secolo di ricerche in «Giotto e il Novecento».
Si sono affacciati e si affacciano al Mart artisti contemporanei, come Giuseppe Salvatori, Angelo Filomeno, Giuseppe Gallo, e altri appariranno. Proprio Minini, uno dei decani fra i galleristi italiani, afferma che siamo su posizioni distanti, che difendiamo arti diverse, che abbiamo avuto da ridire l’uno dell’altro per le scelte di campo, e non nasconde di essersi deciso a tornare a Rovereto per visitare il Mart quasi per aver conferma di un pregiudizio formatosi sulle tante bocciature lette. Ma poi costruisce un racconto che si fa via via positivo, fino a sfiorare l’entusiasmo. «Il museo mi pare a posto, pulito come si conviene a un luogo pubblico della Mitteleuropa. Ma già con una vivacità del sud bella frizzante», commenta. Per poi avere la prima sorpresa: «A un certo punto entro in due sale con strani dipinti inizio secolo XX, cerco i cartelli... ma è Nathan! Mai sentito, mai visto, un pittore di Trieste, straordinarie opere di pittura. Con echi, certamente, tra De Chirico e Carrà, con il sogno del doganiere Rousseau, una scoperta, morto in campo di concentramento». Ed ecco il primo omaggio a me: «Quando ti impegni senza polemiche fai sempre degli scambi straordinari. Ti piace recuperare artisti sfortunati (Romolo Romani, Nathan). Ti piace nominare artisti pochissimo conosciuti e dirci in faccia che siamo degli ignoranti, delle capre», aggiunge Minini. Ben sapendo che questo è il miglior complimento che si possa fare a un critico e ancor più al presidente di un museo. In un’Italia dove da tempo si è rinunciato alla ricerca, alla valorizzazione dei nostri artisti. In favore del certo e del già riconosciuto (si veda il trionfo di Jeff Koons a Firenze). «Sì, esageri, ma mi è piaciuta l’aria vivace che ora regna al Mart, questa casa di montagna per artisti figurativi», prosegue Minini, sempre più conciliante.
Che trova il modo, en passant, per una frustata al funereo padiglione nazionale alla Biennale: «La complessità dell’arte italiana è grande e ha avuto il suo punto più basso alla Biennale di Venezia: un solo artista al comando». Per concludere con una apoteosi: «Comunque visitate il Mart che è oggi il più bel museo d’Italia, esagerato, sgarbista, scambista. Un museo didattico dove alcune brutte opere sono inserite a bella posta per farci meglio capire che cos’è il Bello: le BELLE ARTI».