Il Messaggero, 4 dicembre 2022
Intervista a Ildefonso Falcones
«Cosa mi sarebbe piaciuto scrivere ma non ho mai osato? Harry Potter, visto il successo che ha avuto». Ildefonso Falcones scherza davanti a un piatto di tonnarelli e a un bicchiere di vino rigorosamente tinto, in un ristorante romano. Il suo nuovo libro, Schiava della libertà, è appena uscito in Italia, e il mago spagnolo del romanzo storico – autore di capolavori come La cattedrale del mare – si gode il tour promozionale. «Non ho l’immaginazione per scrivere un libro come quelli di J.K. Rowling – precisa – i libri di fantasy o fantascienza non sono mai riuscito a leggerli e, forse, non sarei neanche capace di scriverli. Non riuscirei a entrare nell’ordine di idee di dover immaginare quante teste debba avere un mostro, o altri dettagli di questo tipo».
Falcones ci ride su, ma è appena uscito da un vero calvario: ha affrontato, e vinto, il cancro. «Mi sono dovuto sottoporre a tre operazioni al polmone e una al fegato, negli ultimi anni – racconta – in tutto sono stato operato otto volte. L’ultimo controllo è stato soddisfacente. Ma come sappiamo, per considerarci guariti, devono passare almeno cinque anni senza presenze estranee».
Mai avuto un momento di cedimento?
«Se non esistesse la speranza, sarebbe terribile. Mio fratello, purtroppo, è morto in tre mesi, perché dipende anche dal tipo di tumore che ci attacca: il suo era molto aggressivo, il mio non lo era ma potrebbe diventarlo. A volte parlare di questo argomento, dire di stare bene, può sembrare quasi una sfida, un azzardo. Dopo tanto tempo il tumore diventa come un personaggio che vive dentro di noi. In questo momento è latente, ma fare dichiarazioni del tipo: sto bene o sono guarito sembra quasi un modo di sfidare il nemico. Dal punto di vista emotivo non è facile, ma questa è la vita».
Schiava della libertà è un romanzo diviso in due piani temporali. Nel primo, ambientato nella seconda metà del XIX secolo, si narra la storia della piccola africana di etnia yoruba Kaweka, rapita assieme a tante altre donne e bambine e portata a Cuba su una nave di schiavisti. Il secondo piano è ai giorni nostri: una donna che discende da quella stessa bambina, Lita, si trova a lavorare per la banca dei marchesi di Santadoma, che discendono dagli stessi proprietari terrieri che ridussero in schiavitù la sua antenata. Perché ha usato questo espediente?
«È un libro diverso dal solito, ma era necessaria quella parte ambientata nel presente. Un semplice romanzo sullo schiavismo mi sarebbe sembrato ben poca cosa, di scarso interesse».
Le storie delle due protagoniste si intrecciano, ci può anticipare perché?
«Le loro vite sono unite grazie alla magia, alla religione, che era una delle poche risorse a disposizione degli schiavi. La fede Yoruba ha un pantheon di divinità estremamente complesso».
I destini di Kaweka si intrecciano con quelli di Lita. Ma in che modo lo schiavismo di allora si riflette nella società di oggi?
«Si riflette nel razzismo esacerbato, nella xenofobia e in un certo grado di invisibilità di queste persone. Ma voglio ricordare che questi eventi sono molto vicini a noi. Mia nonna per un periodo della sua vita è stata contemporanea della schiavitù. I primi ad abolirla sono gli Stati Uniti, nel 1865. La Spagna arriva per ultima, nel 1886. Ma in realtà, anche una volta abolita la schiavitù, questi esseri umani hanno una vita tutt’altro che semplice. La maggioranza di loro non riesce ad accedere a una economia caratterizzata da un capitalismo estremo. Non hanno, letteralmente, la possibilità di mangiare. Vivono, insomma, ancora peggio di prima».
Perché ha deciso di occuparsi proprio di questo periodo storico, degli ultimi anni dello schiavismo?
«Di schiavi avevo già scritto, ce n’erano anche nella Cattedrale del mare, negli Eredi della terra, nella Regina scalza. La differenza è proprio la prossimità temporale, rispetto ai giorni nostri. A un certo punto viene abolita la tratta degli schiavi, e non la schiavitù. Per questo le navi caricano soprattutto donne, che vengono destinate a mettere al mondo altri schiavi».
Ha voluto scrivere di un tema che sembra noto, ma che non lo è affatto, lo sa?
«Quando il libro è uscito in Spagna la reazione è stata del tipo sì sì la schiavitù, sappiamo che cos’è. Ma non è vero. Molte fortune familiari sono derivate nel corso dei secoli proprio dallo sfruttamento schiavista, e questo mi ha molto impressionato. Ho cercato di scrivere una ricostruzione fedele storicamente. E poi nella trama ho usato come ingredienti fondamentali l’amore, la passione, il denaro, la vendetta».
Negli ultimi anni le disuguaglianze sociali sono aumentate a livelli record. Perché?
«Abbiamo inanellato una serie di crisi finanziarie, che costituiscono il brodo di coltura perfetto per la speculazione. Questo tipo di fenomeni distanzia sempre più le classi sociali e inibisce il funzionamento del cosiddetto ascensore sociale. E non servono a nulla certe misure populiste».
Si avverte una certa affinità con il realismo magico. È una delle sue ispirazioni?
«Me gustaria, mi piacerebbe essere paragonato con il realismo magico. Ogni religione prevede una componente di questo tipo. E devo dire che mi è piaciuto molto utilizzare l’argomento religioso da questa prospettiva, come non avevo mai fatto prima. Ma ho cercato di trattare l’argomento con un totale rispetto, anche scrivendo di persone che danzando entrano in trance o vengono possedute dagli dei. Sono fenomeni che possono sembrare folcloristici, ma che in realtà non sono affatto diversi dalle nostre credenze, dal misticismo che pervade i nostri santi. Spero che si avverta il mio senso di rispetto quando scrivo di questi temi».