la Repubblica, 4 dicembre 2022
Che cos’è oggi la Lega?
Se la Lega fosse un veicolo sarebbe una vecchia automobile ritargata, con carrozzeria rifatta integralmente, motore truccato, interni modificati a gusto dell’ultimo proprietario: Matteo Salvini. A qualcuno potrebbe pure piacere. Pochi, a giudicare dalle urne. Nessun pezzo originale, nessun libretto di circolazione, anzi due, come le ragioni sociali del partito, un vero magheggio, un impiccio, si direbbe nella vecchia e cinica Roma ladrona: da una parte la Lega Nord rottamata e insolvente, carica di debiti con i contribuenti, dall’altra la Lega per Salvini premier, una scatola riempita solo dal leader e dai suoi fedelissimi No Vax, no euro, no pudore, che ha mantenuto il nome nonostante l’obiettivo, la premiership, sia stato mancato. Significa, del resto, che Salvini ci riproverà a oltranza, l’amica Marine Le Pen insegna. Il difficile non è più capire se il fu Capitano sia ancora in grado di guidarla, questa vecchia auto, è comunque un fatto che fin qui nessuno dei passeggeri ha avuto la forza di scansarlo dal volante. Più complicato è intuire se la macchina sia ancora marciante e consegnabile a un nuovo pilota, perché molti leghisti hanno una risposta chiara alla domanda: comprereste un partito usato da Salvini? Non lo comprerebbero. La sensazione è che la Lega sia già politicamente implosa e che, se Salvini è ancora al suo posto nonostante i rovesci dell’ultimo biennio, è anche perché nessuno sa bene cosa lascerà quando si farà da parte o sarà costretto a farlo. Per inseguire il sogno di Palazzo Chigi, Salvini ha cambiato il dna della Lega, passata in un baleno dal secessionismo padano all’ultranazionalismo sovranista, ma anche dall’ultraliberismo degli esordi lombardo-veneti a forme di neostatalismo e peronismo di destra. Cosa è dunque oggi la Lega? L’alleato ufficiale di Russia unita, il partito Stato putiniano? La forza federalista e pro diritti civili di Zaia? Il bar sport dei Borghi e Bagnai, dove il sogno non è solo pagare cash ma allungare al cassiere una banconota da diecimila lire? Ora stanno tornando alla carica anche i nostalgici della Lega Nord. Il tracollo del Carroccio nei territori dove un tempo faceva il pieno di voti è apparso in tutta la sua gravità sia alle politiche che alle amministrative, perse male in città come Verona, Varese, Monza e altre in cui, un tempo, il Carroccio avrebbe vinto anche presentando nessuno. Come è accaduto a un altro abile scalatore di partiti, Matteo Renzi, anche a Salvini non è riuscita l’operazione di allargare l’elettorato e, come l’omonimo, ha finito per perdersi buona parte del suo. Ieri si è riunita la corrente fedele al mito di Umberto Bossi, il Senatur, che sfida apertamente la leadership di Salvini e vorrebbe tornare a quando lo slogan era “prima il Nord” e non “prima gli italiani”. La differenza tra i due concetti è abissale – la distanza tra una forza autonomista e una centralista, tra un Salvini nemico giurato del Ponte sullo stretto e il Salvini di oggi che lo costruirebbe a mani nude – e al tempo stesso minima. Perché cambia solo il raggio degli interessi da difendere e il bau bau da agitare davanti agli elettori, se il disoccupato Ciro Esposito o il migrante Bingo Bongo, come Bossi chiamava gli immigrati africani. Il vantaggio di “prima il Nord” è che puoi tornare ad agitarli entrambi. Nella Lega c’è anche questa spinta per un ritorno al passato, molto idealizzato. Salvini va avanti. È convinto di poter usare il ministero e la succursale al Viminale per tornare ai fasti del 2019. Eppure dei leader sovranisti appare quello più frastornato e meno lucido. Meloni ha sfruttato tutti i vantaggi del non aver partecipato ad alcun governo della scorsa legislatura, Draghi compreso. Conte non ne ha mancato uno, di governo, ma appena uscito da quello Draghi ha finto di non avervi mai partecipato, tanto che spesso rimprovera Meloni di aver fatto “opposizione morbida” (quella dura, intende, la faceva lui da dentro). E Salvini? Un po’ dentro e un po’ fuori, mezzo maggioranza e mezzo opposizione, il Nord ma anche il Sud, la mattina parla Giorgetti e il pomeriggio erutta Borghi. Un partito che fa ancora tanto rumore sebbene non sia più chiaro cosa dice. Lo specchio delle dirette del suo leader su Tik Tok, mentre gli adolescenti gli piazzano baffi e cappello da cow boy e lui saluta chiocciolina2001.