Tuttolibri, 4 dicembre 2022
Il ritorno di Ricciardi
È stato aprile, la colpa è sua; è il mese che rimescola il sangue agli amanti, difficile da capire e da esplorare. Porta ricchezze e povertà, i silenzi e le parole. Induce il desiderio e toglie il sonno, invoca pace e chiede aiuto. È l’assassino di due giovani innamorati, il mandante di un omicidio che tradisce ogni coscienza. È la mano che taglia le gole e spacca le teste. È il coraggio che risolve i misteri e rende tutto possibile, alla fine. Anche scoprire il movente assurdo di un delitto feroce. O riuscire a cantare un tango in una terra lontana, oltre l’Oceano, dove nessuno avrebbe scommesso un peso bucato sulla voce di una donna senza nome e, in apparenza, senza storia.La canzone è Caminito, «un sogno senza ritorno». È figlia di due amori perduti, succo concentrato della nostalgia. È la melodia dell’anima del Commissario Ricciardi che ricompare per la tredicesima volta e si ritrova in un mondo in cui tutti hanno paura. Non solo perché è aprile e non ci si può fidare. Questa è la stagione più infida e mortale, la scena si svolge nella primavera del 1939 – sono passati cinque anni da Il Pianto dell’Alba -, mentre il bel tempo e quello brutto lo fanno le camicie nere, i cacciatori spietati di ebrei fra mura che hanno orecchie. Maurizio De Giovanni non può aver scelto a caso il momento. Prima o poi doveva succedere, il calendario della Questura di Napoli sarebbe comunque dovuto arrivare ai giorni in cui il fascismo ha trasformato il suo peggio in un orrore permanente. Ma qui si ricordano le cose come erano. E si scopre che, anche in contesti differenti, le ragioni e i pensieri di chi fa il Male non sono poi così cambiati. Anzi.Rieccolo. Commissario Luigi Alfredo Ricciardi, anni 39, nativo del Cilento. Vedovo di Enrica, padre di una bimba meravigliosa, Marta. Un poliziotto serio, fedele ai valori dell’etica e agli amici, pragmaticamente antifascista, grande investigatore schiavo di un superpotere doloroso. «Il Fatto». Vede e ascolta le voci delle vittime di morti violente che non trovano pace sinché il loro delitto non è risolto. Le incontra per strada, gli popolano i giorni e le notti. Lo assistono e lo tormentano. In Caminito prendono la forma di una donna e di un capitano di marina uccisi sul più bello dopo essersi appartati in un boschetto di San Giovanni reso ancora più invitante dall’aprile dolce e traditore. L’ufficiale dal ricciolo ribelle li affronta con la consueta cadenza, accompagnato dall’immancabile Maione, questurino fidato, a tratti burbero, ottimo padre e pessimo autista. Ma stavolta ci sono delle incognite in più. Per tutti.Ricciardi ha una questione personale, anzitutto. Sente che è giunto il momento di scoprire se la piccola Marta ha ereditato «il Fatto» e prepara con cura paterna la scena per riuscire ad arrivare a una risposta. Anche Maione ha una crisi in famiglia: è spuntato un signore dall’America che gli vuole portare via Benedetta, la ragazzina che ha accolto come una figlia. In una Napoli di cui il 1939 ha esasperato «l’animale necessità di sopravvivenza», gli adulti soffrono, i bimbi danno speranza: Marta e il piccolo Federico giocano come se tutto fosse normale, sebbene nulla possa essere normale nel mese di aprile. Intorno le donne vivono schiacciate da maschi ignoranti, sinché rivelano la loro grandezza liberandosi dal giogo e tracciando la via della verità. I fascisti manganellano i diritti e trattano gli uomini come pupazzi.Anche De Giovanni ha vissuto un Fatto, a modo suo. Lo scorso luglio è finito al Cardarelli per colpa del cuore impazzato. Recuperate le forze è tornato a scrivere, ha richiamato in scena Ricciardi, a gran richiesta, dopo tre anni di silenzio. «Basta noia», ha raccontato a chi gli chiedeva come era andata. Promessa (inutile) mantenuta. Caminito è più di un giallo. È un romanzo ricco di sorprese, trova energia nella profondità dell’anima letteraria dello scrittore napoletano. Un ritorno che danza in tre quarti, il tempo perfetto della musica nell’era classica. Le trame si intrecciano con ritmo impeccabile, per raccontare le pene e le speranze, sino a quando tutti i fili si ricompongono e cala il sipario.Poi c’è la canzone, Caminito, onde di rimpianto e bellezza. L’hanno cantata in cento, da Carlos Gardel a Claudio Villa. Sonorizza un gioco di ombre e di specchi, la storia di un amore perduto. Una donna che si fa chiamare Laura Lobianco cerca di interpretarla col pianista Diego, musicista sdrucito che fra un vizio e l’altro si sforza di scoraggiarla dal cimentarsi con questo tango struggente. Non gli pare roba da donne. Finisce come finisce, ma già c’è materiale per un nuovo libro. De Giovanni si diverte a lasciare porte aperte, non sia mai che ci si annoi. Ricciardi è ancora giovane in un’Italia pronta alla guerra. Qualcos’altro succederà. Perché, dall’altra parte del mondo, Laura in realtà si chiama Livia ed è una vecchia conoscenza del commissario. E a Napoli Marta forse non è proprio quello che si capisce a primo acchito. Le due donne attendono il loro aprile e, letta l’ultima pagina, si è ragionevolmente sicuri che la storia non sia finita. Basta saper aspettare.