Corriere della Sera, 4 dicembre 2022
I ritratti di Ernesto Ferrero
Bisognerebbe limitarsi a dire: leggetelo, e stop. Ci sono libri così, per i quali ogni commento rischia non solo di essere superfluo ma di guastarli. È il caso di Album di famiglia di Ernesto Ferrero (Einaudi). Il sottotitolo al plurale, «Maestri del Novecento ritratti dal vivo», è inevitabile e corretto, perché ogni voce, da Calvino a Eco, può essere letta da sola con grande vantaggio del piacere e della conoscenza. Ma per apprezzare al meglio questo Album di famiglia vale la pena goderselo non pezzo per pezzo ma nel suo insieme, dall’inizio alla fine. Perché oltre a essere una rassegna di ritratti, è una sorta di canzoniere della cultura italiana, e appunto, come accade per le migliori raccolte poetiche a partire da Petrarca, conviene cogliere in parallelo l’aspetto lirico e l’aspetto romanzesco della storia d’amore in versi, che qui è una storia d’amore in prosa.
Album di famiglia è un canzoniere in vita e in morte di una «famiglia» allargata e irregolare fatta di uomini (tanti) e donne (troppo poche) che hanno creduto nel lavoro intellettuale come piacere individuale e anche come contributo per la costruzione di un Paese serio e robusto, civile e moderno. È la «famiglia» che Ferrero ha vissuto dall’interno, a partire dal 1963, cominciando come funzionario dell’ufficio stampa Einaudi, e proseguendo come direttore letterario ed editoriale in via Biancamano, poi ancora in Boringhieri, in Garzanti, in Mondadori, dal 1998 al 2016 di nuovo a Torino, la sua città, come sovrano del Salone del Libro. Una famiglia «ramificata, bizzarra, sorprendente, eccessiva, dispersa, perfino conflittuale, come tutte, ma straordinaria, coesa nelle stesse passioni, nello stesso sentire». E se ogni suo componente ha una storia a sé, con il suo carattere, il suo protagonismo, i vizi e le virtù che gli sono propri, è però consapevole di agire dentro la storia di una comunità. Sostenuto da questa coscienza, Ferrero, con la sua passione e con il suo stile, trasforma i singoli «fragmenta» in una specie di canzoniere petrarchesco, fatto di rime interne, riprese a distanza, allitterazioni tematiche ed esistenziali. Restituendo il senso di quella coesione e di quella collettività che, a prescindere dalla qualità dei singoli attori già in sé grandiosi, oggi è davvero andata perduta.
«Sono diventati parenti stretti, presenze vive con cui dialogare» e delle quali «custodire il fuoco» di amore e di conoscenza. In dieci capitoli troviamo i «prediletti» Calvino e Primo Levi, i «capitribù» (gli editori-padroni), i «padri nobili» (Pavese apre la schiera), due «zii sapienti» (Cases e Pontiggia), le quattro «signore di ferro» (Ginzburg, Morante, Romano, Chichita Calvino), sei «maghi e funamboli» (Rodari, Munari, Fruttero & Lucentini, Regge e Ceronetti), i «cari agli dèi» (e a Ferrero, ovviamente), morti troppo presto (Fenoglio, Atzeni, Del Giudice), gli «inquieti» (Parise, Del Buono, Sciascia, Consolo, Celati), i «compagni di banco» all’Einaudi (Roberto Cerati, Paolo Fossati, Nico Orengo), i «mattatori» fuori misura in tutto (Guttuso, Pasolini, Garboli, Eco). Credo che Ferrero avrebbe potuto raddoppiare i nomi, vista l’esperienza già mirabilmente raccontata ne I migliori anni della nostra vita, che aveva per epicentro Giulio Einaudi e la sua corte. Ma il bello è che ogni vita narrata, come si diceva, non si esaurisce in sé ma rimanda all’altra: così in Einaudi trovi un po’ di Luciano Foà, in Foà trovi Calasso, in Calasso trovi l’«agente speciale» Erich Linder, in Linder trovi un po’ delle vite di Adriano Olivetti, di Bobi Bazlen, di Calvino, in Calvino trovi una lettera a Elsa Morante, in Elsa trovi Garboli, che la definiva una cannibale, in Garboli ritrovi Garzanti e Natalia Ginzburg, eccetera, all’infinito, tutto si teneva per affinità, vicinanza, ideali, anche per contrasto.
Quel che conta, in definitiva, è che non c’è scrittore, oggi, che sappia raccontare meglio di Ferrero i personaggi dal vivo: sono lui e Tullio Pericoli i grandi ritrattisti del nostro tempo, Ferrero con la penna, Pericoli con la matita. Significa saper osservare, saper ascoltare, e da quell’ascolto e da quell’osservazione saper cogliere l’essenziale che altri non vedono e renderlo visibile a tutti con la naturalezza assoluta di un gesto e di una parola. Uno dice: eh già, non l’avevo notato ma è proprio così. L’autentica sorpresa è che da quel dettaglio segreto si apre un ambiente fisico e mentale, il mondo dello scrittore, dell’editore, dell’intellettuale narrato, visto, incontrato, ammirato, la sua visione, il suo comportamento, il suo carattere, il suo rapporto con gli altri, la sua opera, la sua eredità. Perché in ogni personaggio c’è una grande opera compiuta da lasciare ai posteri: questo è ciò che accomuna tutti, la volontà di costruire, una volontà insieme creativa e artigianale che coincide con la propria pienezza e la propria felicità.
Detto ciò, quella felicità, grazie alla scrittura di Ferrero, diventa il nostro stesso godimento. «Compariva all’improvviso come un folletto spiritoso e spiritato. Gli ridevano anche gli occhiali…». Chi avesse avuto mai il piacere assoluto di conoscere Vanni Scheiwiller, il più grande dei piccoli editori (dunque più grande dei grandi), lo rivede esattamente così, con gli occhiali che gli ridono quando annuncia una delle sue plaquette colorate, un Montale, un Rebora, un Gadda, un Flaiano, una Szymborska o una Merini («quando nessuno se la filava», aggiunge Ferrero, il che vale per tanti). «Guardava la letteratura con gli occhi di un intenditore d’arte». Pur non avendola mai incontrata, Ferrero fotografa in un lampo Elvira Sellerio come la donna «che univa lo stile alto di una vera signora al fiero coraggio di Bradamante». E poi descrive da par suo gli ambienti di via Siracusa a Palermo: «Una casa di famiglia. Con i vecchi mobili dall’aria protettiva, altrettanti lari e penati, le capienti librerie ottocentesche, i divanetti, le poltroncine, le étagères, lampade da tavolo poco invasive, la cera ben tirata sui pavimenti, cari ricordi alle pareti (…). Erano come fiori secchi che mandavano ancora un gentile profumo. Non oggetti di collezione, ma pezzi di cuore». E poi c’è lui, il marito di Elvira, Enzo, «incarnazione dello Stile», con un côté dada. Tocchi che regalano l’immortalità.
Livio Garzanti è tutto il contrario: «genio infelice per dovere famigliare», il mancato filosofo che sapeva sposare l’alta letteratura, la grande poesia e i bestseller di Spillane e di Fleming, con le grandi opere, enciclopedie e dizionari. «Tutto cucinato in casa, con scrupolo maniacale». Ma è un particolare a isolare nella sua unicità quel caratteraccio insensato e spesso distruttivo: «Unico tra gli editori, si sentiva in diretta competizione con i suoi autori. Che erano bravi, per carità, ma lui si sentiva più bravo di loro». Persino Pavese, l’uomo dei malumori che Ferrero non può aver conosciuto nelle stanze einaudiane, un altro caratteraccio a cui non andava mai bene niente, viene descritto da vicino: «Lavora (vive) per una dozzina d’anni in casa editrice, ma è come ci fosse stato mezzo secolo, stiva il granaio come se dovesse nutrire le generazioni a venire». Una missione? Forse. «Si era sentito vivo solo in ufficio. Poi non gli era più bastato nemmeno quello». Fu Montale ad aprirgli gli occhi sulla letteratura con Le occasioni. Prima, l’editore Pavese si occupava tanto di storia ed economia.
Incrociato, invece, Montale, una sera verso la fine degli anni Sessanta nella redazione milanese dell’Einaudi, al sesto piano di via Brera 6, dove il vecchio poeta, a braccio della governante Gina, si era inerpicato non si sa per quale strano motivo. Ed eccolo come appare allo sguardo del giovane Ferrero, che timidamente gli si rivolse chiamandolo Maestro: «Lui strizzò le rughe, mosse appena le mani, come a scacciare una mosca importuna. Si esprimeva soprattutto con i gesti, le intonazioni della voce, un certo modo di sbattere le ciglia (…). Sotto il volto gommoso, le labbra un po’ gonfie, stava acquattato il sorriso sornione di un gatto vocato all’umorismo nella sua speciale declinazione ligure, che ha il genio della deformazione comica, il gusto caricaturale mai cattivo (…). Il riso agro che diventa economicità espressiva, ritegno, paura di dire troppo». Il ritratto perfetto del poeta che ha vissuto al cinque per cento.
Al cento per cento deve aver vissuto Inge Feltrinelli: «Inge era un inno alla gioia (...). Con i tratti vagamente orientali, il sorriso largo, gli occhi che ridevano al mondo». E quel colore, l’arancione, «declinato in tutte le tonalità possibili, come se avesse appena finito di raccogliere dai campi grandi mazzi di papaveri». Ernesto la ricorda ai ricevimenti di Francoforte: «Non ne perdeva uno. Arrivava sorridente, captava l’aria, salutava gli amici, afferrava al volo una flûte di champagne, trovava le parole giuste per un saluto o un augurio, come sanno fare i presidenti e i regnanti, e ripartiva». Di lei si potrebbe dire quel che Ferrero dice di Natalia Ginzburg, che era il suo opposto, con la sua aria severa e sempre in grigio: «Se dava amicizia, era per sempre». Per spiegare a Einaudi le ragioni del loro matrimonio, suo marito Leone disse: «Scrive bei racconti». Lo dicevamo, infatti: Album di famiglia è anche un canzoniere d’amore.