La Lettura, 4 dicembre 2022
Il bambino che non vede, non parla, non sente
Il bambino appena nato è molto bello, ha le guance tonde, i capelli castani e grandi occhi scuri. Gli amici affrontano la strada piena di curve, in montagna, per andare a conoscere il nuovo arrivato in una famiglia dove ci sono già due figli, il maggiore e la minore. Un giorno la madre passa un’arancia davanti ai suoi occhi spalancati, ma le pupille non si muovono. Il bambino è cieco, e quando il padre lo annuncia agli altri due figli suggerisce di prenderla «come una fortuna perché loro sarebbero stati i soli della scuola a saper giocare a carte in braille». L’eccitazione di diventare i sovrani della ricreazione passa velocemente, perché il bambino è gravemente handicappato: non vede, non parla, non si muove, può affidarsi solo all’udito, ma per il resto il cervello non trasmette quel che deve. Il medico spiega che l’aspettativa di vita per i neonati affetti da quel disturbo genetico è di 3 anni, che qui diventeranno 8.
Adattarsi, della scrittrice francese Clara Dupont-Monod, è la storia non tanto del bambino ma di quelli che gli stanno intorno, i fratelli: il maggiore, che si dedicherà a lui con la dedizione di un monaco; la minore, che almeno all’inizio rifiuterà quel dolore e quell’affetto; e l’ultimo, il figlio della convalescenza famigliare, nato dopo la morte del bambino «inadatto». Adattarsi è un riuscito romanzo, in parte autobiografico, che parla di come si può continuare a vivere quando non tutto va per il verso giusto: il bambino come una metafora dei traumi imposti dall’esistenza. «Quindi un romanzo universale, che tocca tutti», dice l’autrice.
Perché l’ambientazione in montagna, che è piuttosto presente?
«Sono cresciuta nelle Cévennes, una catena nella regione protestante nel Sud della Francia. Montagne imponenti e capricciose che impongono la loro legge, sono gli uomini a doversi adattare a loro, alla natura, e non viceversa».
Che questa sia una zona tradizionalmente protestante che cosa comporta?
«Che le persone non siano forse il massimo dello spasso ma a me piacciono molto. Il genere montanaro un po’ austero, che parla più coni gesti che con le parole. Io che adoro il Medioevo ci ritrovo il rispetto delle promesse, della parola data. I protestanti sono sempre stati in Francia una minoranza oppressa, dai cattolici e poi dai nazisti: hanno avuto un ruolo importante nella Resistenza. Mio nonno era un resistente. Il punto è aprire la porta a chi ha bisogno, a chi è più debole, senza fare tante storie. È in questo contesto che arriva il bambino».
I genitori reagiscono con coraggio.
«Devono occuparsi prima di tutto degli aspetti pratici, cercare assistenza e districarsi in un sistema burocratico-amministrativo che in Francia è spaventoso. Alla fine solo le suore riusciranno davvero a da aiutarli».
Ma più che i genitori, sono i due fratelli e la sorella i protagonisti del romanzo, diviso infatti in tre parti.
«Sono molto affascinata dai fratelli e sorelle, da come si parlano, dal fatto che spesso vedono e vivono lo stesso avvenimento da prospettive diverse, con reazioni opposte».
I genitori non dicono come ci si debba comportare con il bimbo disabile, lasciano i figli reagire ognuno a suo modo.
«E infatti hanno reazioni opposte. Il fratello maggiore quasi si annulla nell’amore per il bambino inadatto, trova un canale di comunicazione nell’udito e nel profumo, continua ad andare a scuola e ad avere una vita apparentemente quasi normale ma tutti i suoi pensieri e le sue energie sono rivolti al fratellino».
La sorella invece si ribella.
«Non riesce a sopportare quella che le sembra, e che in effetti è, un’ingiustizia profonda. All’improvviso deve fare a meno del fratello maggiore, che ormai pensa solo al bambino inadatto. Il nuovo arrivo mette tutti alla prova: lei cerca di fare del suo meglio, lo prende in braccio ma non gli sorregge la testa e quasi lo fa cadere. In quel momento è lei la persona inadatta, ogni certezza svanisce. Finché capisce che tocca a lei prendere in mano la situazione perché la famiglia non vada in pezzi. A un certo punto dice: quando un bambino sta male, bisogna sorvegliare quelli che stanno bene».
Poi ci sarà l’«ultimo», il figlio nato dopo la morte del disabile.
«Lui deve affrontare la consapevolezza che forse non sarebbe mai venuto al mondo se il bambino inadatto non fosse morto. E affronta l’esistenza con il senso di colpa di essere vivo e sano, mentre l’altro era malato ed è morto. Il bambino sarà stato forse inadatto ma ha avuto un potere enorme, i rapporti famigliari si sono definiti intorno a lui».
La storia è raccontata dalle pietre di quel villaggio. Come mai questa scelta?
«Qualche volta si dice: “Ah, se le pietre potessero parlare”. E io come romanziera ho pensato di farle parlare, dando loro un po’ il ruolo del coro nella tragedia greca. Un modo anche per cercare il tono giusto, senza aggiungere pathos a una vicenda che di per sé ne è già piena. All’inizio ho provato a fare parlare i fratelli in prima persona ma non funzionava, era inevitabilmente strappalacrime. Sono pietre di un muro a secco, che si regge perché ognuna tiene su l’altra».
Il suo romanzo ha avuto un grande successo in Francia, soprattutto tra i giovani. Come mai, secondo lei?
«Perché parla dell’essere unici e della necessità di adattarsi, una condizione tipica dell’adolescenza. La propria voce cambia e bisogna adattarsi, ci si sente diversi degli altri e bisogna adattarsi, non necessariamente alla società ma a questa condizione. Il mio libro parla del vivere con un’assenza, e purtroppo tutti soffrono per un’assenza, un lutto famigliare, un amore finito. Per questo credo sia un romanzo universale, per capirlo non è necessario avere un famigliare disabile, come per amare un romanzo poliziesco non è necessario essere poliziotti o criminali».
Lei come ha fatto a superare la pena?
«Ho scritto un romanzo».
Come mai non ci sono nomi propri?
«Perché la storia ha già molte particolarità: la nascita di un bambino disabile, le montagne delle Cévennes, l’io narrante di pietra... Ho pensato che evitare i nomi propri e indicare i protagonisti come il fratello maggiore, la sorella minore, il bambino, l’ultimo, rendesse la storia più aperta».
Cosa le hanno detto i suoi famigliari?
«Prima della pubblicazione, ho fatto leggere loro il manoscritto. Ho spiegato che non cercavo approvazione o convalida ma se c’era qualche passaggio che proprio non condividevano lo avrei tolto».
E com’è andata?
«Bene. Diciamo che nella mia famiglia, che adoro, la verbalizzazione di un’emozione è ancora ferma allo stadio di progetto. Mia madre dopo una settimana mi ha telefonato: “Cara, l’ho letto, sì, è scritto molto bene, brava. Ma una domanda: a chi può interessare?”. Dopo due ore mi chiama mio fratello: “Clara, sono io, sì l’ho letto”. Lui è stato ancora più protestante: “Chi potrà mai comprarlo?”. Ma alla fine mi sembra abbia interessato molte persone e lo abbiano comprato in tanti. Se vogliamo, è un libro sulla solidità dei legami famigliari, qualcuno mi ha detto che per questo è antimoderno. Lo prendo come un complimento».