La Lettura, 4 dicembre 2022
La crisi del maschio
Si tratta di uno dei libri più controversi usciti negli ultimi mesi nel mondo anglosassone. S’intitola Of Boys and Men («Di ragazzi e uomini») e il sottotitolo recita: «Perché il maschio moderno è in difficoltà, perché importa, e cosa fare». La tesi è semplice: i grandi perdenti dei cambiamenti economici e sociali negli ultimi decenni sono gli uomini, mentre le donne ne hanno tratto enormi vantaggi. E il risultato è una crisi della mascolinità che ha ripercussioni vastissime, non ultime in campo politico. L’autore, Richard V. Reeves, è un ex consigliere del governo britannico che si è trasferito in America da un decennio e oggi lavora alla Brookings Institution, uno dei più influenti think tank di Washington. Lui è padre di tre ragazzi, adesso ventenni, e ha portato il suo bagaglio personale nella stesura della ricerca: ma è stato accusato di aprire il varco all’antifemminismo più becero. «La Lettura» lo ha incontrato al Centre for Policy Studies, il think tank londinese di ispirazione thatcheriana.
Reeves spiega così la genesi del suo volume: «Mi sono continuamente imbattuto in trend e statistiche sulle difficoltà che incontrano tanti uomini e ragazzi: cose che non credo ottenessero abbastanza attenzione. È un fenomeno particolarmente vero per gli uomini delle classi lavoratrici e per i neri in America». Il primo livello sul quale si concentra l’analisi del libro à quello dell’educazione, dove si riscontra ormai un grande gap di genere in molti Paesi sviluppati: il 40% delle ragazze va all’università, mentre solo il 29% dei ragazzi lo fa. «È un gap più ampio di quello che c’era negli anni Ottanta a favore dei maschi. A ogni livello di educazione – sottolinea Reeves – c’è un crescente gap di genere, lo stesso che c’era 30-40 anni fa, solo che è invertito. Quando spingevamo per l’eguaglianza nell’educazione, negli anni Settanta e Ottanta, nessuno prevedeva che ci sarebbe stato questo grande sorpasso, nessuno seriamente pensava: che succede se l’ineguaglianza di genere si rovescia? Ma ora nelle università il 60% sono donne, mentre negli anni Settanta era il contrario. In ogni Paese sviluppato c’è stato questo sorpasso nell’educazione: ci sono oggi più giovani donne laureate che uomini. Il più grande gender gap è nei Paesi scandinavi, cioè in quelli con maggiore eguaglianza di genere: la Finlandia è famosa per il suo sistema educativo, ma in realtà i ragazzi finlandesi se la cavano appena, sono le ragazze che scalano le vette e questo spinge in alto i risultati generali. Tutta la natura eccezionale dell’educazione finlandese è trainata dalle ragazze».
Il fatto che i ragazzi stiano finendo così indietro nell’educazione, specialmente i bianchi working class, è una sorpresa che nessuno aveva previsto: e Reeves sostiene che sia lo stesso sistema educativo a risultare strutturato per essere più favorevole alle ragazze che ai maschi. Ma c’è di più: secondo lui sono in gioco fattori biologici. «Una delle grandi differenze fra ragazzi e ragazze – argomenta – è quando sviluppano la loro corteccia pre-frontale: poiché nelle ragazze si sviluppa prima, questo significa che una quindicenne e un quindicenne non sono uguali in termini di sviluppo mentale. Lei è più orientata al futuro, ha un maggiore controllo di sé: non c’è una grande differenza fra cervello maschile e femminile, ma si sviluppano in tempi diversi, ogni insegnante lo sa».
Questo ha conseguenze importanti: «Il vantaggio strutturale che le donne hanno nell’educazione – sostiene Reeves – era invisibile nelle condizioni del sessismo, perché le donne non erano incoraggiate a perseguire l’educazione superiore: ma appena abbiamo tolto i freni, il loro vantaggio è diventato apparente ed è avvenuto tutto così rapidamente».
Il gap nell’educazione si traduce in un crescente divario nelle prospettive economiche, anche perché l’automazione e la globalizzazione hanno colpito più duramente i mestieri tradizionalmente machili: «Nel mercato del lavoro – fa notare Reeves – i maschi delle classi lavoratrici hanno visto una crescita dei salari molto lenta. Questo si traduce in altri problemi. Mettendo insieme tutti questi trend, il risultato è un sentimento di perdita, di deriva, di incertezza sull’identità da parte di molti uomini, ma specialmente per quelli con meno potere. Non è un problema per l’apice della società, ma è un problema profondo nelle comunità working class».
Non è dunque solo una questione di indicatori materiali, ma di impatto culturale: «C’è una maggiore fragilità culturale nella costruzione sociale della mascolinità rispetto alla femminilità. Questi trend accelerano a partire dalla metà degli anni Settanta: oggi nel 40% delle famiglie britanniche la principale fonte di reddito è la donna, una percentuale quadruplicata. A questo ci ha portati una serie di cambiamenti economici e sociali coincidenti, ma i problemi economici degli anni recenti si sono metastatizzati con conseguenze politiche intorno a noi». Qui arriva forse la parte più interessante del libro, laddove la crisi del maschio, soprattutto bianco e proletario, è messa in relazione con l’emergere di fenomeni come populismo e trumpismo.
Ma Reeves è consapevole del rischio di essere considerato un oscurantista antifemminista: secondo lui però «se scrivi un libro così e la conseguenza è essere bollato come antifemminista, scettico sul movimento delle donne, come uno che vuole tornare alla famiglia tradizionale, allora significa che le sole persone che parlano di questi argomenti sono quelli che pensano davvero quelle cose: è una profezia che si autoavvera, così crei un circolo vizioso perfetto. Perciò è importante che persone di vedute diverse e di diverse prospettive politiche scrivano di queste cose. C’è una richiesta oggi per una discussione in buona fede che non sia dirottata da una fazione o dall’altra: il mio libro è un contributo in questa direzione».
Lo studioso riconosce tuttavia che la sua analisi si applica solo a una piccola parte del mondo, quello delle società avanzate: «Non credo – scherza – che siano stati venduti i diritti del libro in Afghanistan! Sarebbe folle parlare di queste cose in buona parte del mondo e sarebbe stato folle parlarne in qualsiasi momento della storia umana: eccetto oggi». E dunque per Reeves aprire una discussione sul disagio maschile non significa rinunciare agli sforzi per promuovere le donne, perché «non è un gioco a somma zero». I leader politici ed economici non ci sono ancora arrivati, «perché guardano all’apice della società, dove ancora vedi gli uomini fare molto bene e ci sono istituzioni con una massiccia sotto-rappresentazione delle donne: ma se guardi giù, vedi tanti uomini in difficoltà. Che ci siano ancora tanti uomini al vertice è di poca consolazione per gli uomini alla base della piramide».
Dunque bisogna superare l’inziale perplessità che, ammette Reeves, molti possono provare, specialmente le donne: «Se non andiamo oltre il disagio e non parliamo di queste cose, altre persone lo faranno. Ed è un assioma della vita politica e culturale che quando ci sono problemi reali, se non li affrontano persone responsabili, allora persone irresponsabili li sfrutteranno. I problemi mutano in risentimento e vengono sfruttati da cattivi attori: lo vediamo su internet e lo vediamo nella nostra vita politica».