Robinson, 3 dicembre 2022
Intervista con Pera Toons
Non so come cominciare a parlarvi di questo mio incontro con Pera Toons, al secolo Alessandro Perugini. Il fatto è che un suo libro edito dalla casa editrice di fumetti Tunué è stato per alcune settimane nella top ten dei libri più venduti. Fin qui niente di strano. Come non è strano che Alessandro sia una star dei social, al punto che ogni suo libro mobilita migliaia di fans e vende tra le ottanta e le centomila copie. Quello che Pera Toons ha messo in piedi è una vasta comunità del sorriso e della leggerezza, fondata sulla bizzarria. I suoi libri – ne ho sei sul mio tavolo – sdoganano la lingua dell’infanzia liberandola dai balbettii e innalzandola alla logica elementare del gioco linguistico. Più che Wittgenstein qui funzionerebbe Toti Scialoja. I dialoghi sono frasi semplici, ovvie ma riverniciate con un tocco di surrealtà. L’ovvietà, oltretutto, è usata in funzione dell’immagine. Si vedono ad esempio un pinguino e un orso su una lastra di ghiaccio. Il pinguino dice all’orso: «Perché non mi parli?» e l’orso risponde: «Non volevo rompere il ghiaccio». La battuta in un contesto diverso potrebbe essere atroce. Perfino il disegno verrebbe da dire non è un granché. Eppure l’insieme funziona. È come il bestiario medievale: assembli cose che non possono stare insieme ma in realtà il risultato è fantastico. Capite quello che voglio dire e che a me provoca sconcerto e curiosità? Perché un corpo sfidando le leggi della gravità comincia a volare nonostante tutto? Giustamente Alessandro non si pone problemi del genere. Dice che quello che fa gli viene naturale. Come bere, mangiare o raccontarsidavanti ai suoi fan. Il tuo ultimo libro “Ridi a creepypelle” è stato settimane nelle parti alte della classifica.«Spero di non montarmi la testa».C’è il rischio?«Non vorrei darti l’impressione di uno arrogante. L’unica cosa che alla lunga non paga nel successo è la stupidità».Come definiresti quello che fai?«Mi muovo nel mondo della comunicazione e delle arti visive. Detto più semplicemente faccio il fumettista. E ho fatto il “content creator”».Sarebbe a dire?«Un tempo si chiamava grafico pubblicitario. In realtà è un creatore di contenuti visivi ed emozionali. È un lavoro che ho svolto per alcune aziende e marchi, devo dire anche con un certo successo». Sei nato in provincia e vivi in provincia. Dove esattamente?«Vivo a Terontola, con mia moglie in casa dei suoi genitori. Sono nato ad Arezzo. Non so se riuscirei a staccarmi dalla provincia. Ho vissuto un periodo a Milano dove ho studiato grafica. In realtà sono un ingegnere mancato».Quanto mancato?«Una decina di esami, poi la noia ha avuto il sopravvento. Ho sempre avuto il pallino per la matematica, ma ero un giocherellone. Ho scelto allora la facoltà di grafica a Milano e ho cominciato a prendere dei 30 agli esami. Ho capito che le cose devono piacerti per farle bene. Dopo la laurea ho lavorato per sei anni nel campo dei gioielli e del food. Mi sono innamorato della persona che poi ho sposato, ho lasciato Milano per aprire un mio studioa Perugia. I miei genitori hanno un’azienda di terriccio e mi hanno appoggiato nelle mie scelte, in particolare mio padre».Che cosa hai imparato dalla grafica?«Che la forma è altrettanto rilevante del contenuto. Ho capito che il packaging è l’esperienza più bella che un grafico può vivere. Mi dava soddisfazione scoprire che un oggetto veniva commercializzato anche in virtù del suo involucro. Poi, una volta a Perugia, ho cominciato a esplorare il mondo dei fumetti. Era un’attività parallela, senza la certezza che mi avrebbe portato da qualche parte. Mi piaceva raccontare delle piccole storie, al tempo stesso mi chiedevo se sarei stato capace di trasformarla in un lavoro vero. Ho cominciato con Instagram nel 2017 e nel 2020 è avvenuto il grande salto».Spiega il tuo esordio.«Era il luglio del 2017, provai a pubblicare su Instagram un enigma».In che senso un enigma?«Un indovinello che misi in rete alle nove del mattino. Alle 11 era virale. Da 200 like ero giunto a 50mila. Poi la curva scese, provai con un altro enigma e di nuovo nel giro di poco la curva si impennò nuovamente. Mi resi conto che le mie piccole invenzioni piacevano. È nato così il primo libroChi ha ucciso Kenny?, che uscì nel 2019, alla vigilia del Covid».Che cosa racconti nel libro?«Kenny è il protagonista della mie storie. È un appassionato di enigmi e, un po’ come uno Sherlock Holmes, viene coinvolto in una serie di delitti. Vorrebbe risolverli, ma poi si trova talmente invischiato nei casi di omicidio che alla fine è lui che muore. La cosa particolare è che Kenny rinasce ad ogni nuova storia e toccherà al lettore svelare o risolvere il mistero della sua morte». La tua prima storia, “Il trono di Kenny” fa il verso al “Trono di spade”.«C’è un’allusione alla serie televisiva di successo, ma anche richiami a Harry Potter o alle vicende dell’antica Roma. Le ambientazioni possono essere diverse. Come pure gli avversari di Kenny. Spesso deve vedersela con dei mostri, degli alieni o personaggi altrettanto bizzari». L’altra particolarità è che i tuoi libri interagiscono con i lettori.«È il principio della rete che ho ricondotto al libro. Ciascun lettore può affrontare l’enigma, per esempio come è stato ucciso Kenny, e provare a risolverlo. Spesso la soluzione torna in Rete, attraverso un dialogo con me».Chi sono i tuoi lettori?«Bambini di dieci anni, l’oscillazione è tra i sette e i quattordici. Ma sono libri che curiosamente piacciono anche ai grandi».Perché secondo te?«Sposano insieme la fantasia con la logica, l’enigmistica con la bizzarria».Durante il Covid che succede?«Poco prima metto in rete un video che realizza dieci milioni di visualizzazioni. È la strada giusta mi dico. Poi arriva la pandemia, gli ospedali intasati, i morti, le città deserte, la paura. Nessuno aveva più voglia di ridere. Provare a fare battute su quello che stava accadendo era impensabile e soprattutto di cattivo gusto».A quel punto?«I primi video durante la pandemia erano in linea con l’angoscia generale. Ma il pubblico non mi seguiva. Mi sono detto: forse devo riuscire a fare arrivare un messaggio positivo. Ho tolto lemascherine ai miei personaggi. Non era un invito ai miei lettori di fare lo stesso. Volevo che capissero com’era bella la vita prima del Covid e che solo grazie a un po’ di ottimismo avremmo recuperato quello che ci sembrava perso. C’è stato un boom incredibile di consensi. Non è che entrassi nel merito delle cose che stavano accadendo. Non volevo assolutamente fare della pedagogia a buon mercato. Desideravo solo che ai miei follower arrivassero le storie che raccontavo». Il linguaggio delle tue storie è basico, diretto, senza costruzione.«Dì pure elementare. Uno degli apprezzamenti che mi vengono rivolti è che sulle mie storie molti bambini hanno imparato a leggere. Quello che sul piano del linguaggio io invento sono freddure. Ti faccio un esempio: due foche si guardano una dice all’altra: “smettila di fissarmi”, “non ti sto fissando, ti sto focalizzando”. Oppure: “E tu chi saresti?”, “sono un virus”, “che lavoro fai?”, “faccio l’influencer”. La freddura è stringata, veloce, non porta via tempo. Perfetta per il mondo dei social. Però un’altra cosa che ho capito è che un’immagine vale più di cento parole. E quindi è fondamentale trovare l’equilibrio giusto tra ciò che fai vedere e ciò che scrivi».Da quanti anni sei in questo mondo?«Dal 2017, prima ero a-social, diffidavo del tipo dicomunicazione che veniva praticata. Dell’arbitrio con cui talvolta il mezzo viene usato».Hai mai avuto problemi?«Che intendi?» Gente che ti insulta, che se la prende con te, che ti critica.«Più cresce la tua community e più è alta la probabilità di incappare in forme di dissenso. Anche verbalmente violento».Come reagisci?«Di solito non reagisco. Però tendo a non bloccare nessuno, tranne i Bot. Cioè i robot digitali che fanno credere all’utente di essere davanti a una persona vera. In realtà sono programmi che diffondono fake, truffano o abbindolano la gente oppure servono a barare sulle le statistiche. In ogni caso sono pratiche immorali. Poi c’è una fascia di persone reali che magari ti critica perché sei stato incoerente: hai promesso una certa cosa e non l’hai mantenuta. E lì di solito rispondo e spiego. Infine c’è l’hater, l’odiatore di professione, che ti insulta a prescindere. È una quantità modica che non mi dà fastidio e anzi mi fa capire che le cose vanno molto bene». Hai calcolato di quanta gente si compone la tua community?«Per vantarmi dico intorno ai 4 milioni. Ma in realtà è una cifra che somma tutti i social e spesso la stessapersona tende a ripetersi. Un calcolo attendibile del numero dei miei follower si aggira intorno a un milione e mezzo».Ti sei mai chiesto chi c’è dietro un follower?«Di solito sono persone stupende. Me ne accorgo quando in una libreria o a una fiera c’è il momento del firma copie. Entri nel mondo reale, ma non è brutale o deludente. Avverti affetto e perfino ammirazione e senti come non mai che tu esisti perché esistono loro, con la bellezza dei loro pensieri semplici, con i desideri di vivere in un mondo decisamente migliore».Non sei un po’ troppo edificante?«Il mio è un pubblico di bambini e adolescenti e solo indirettamente di adulti. Quello che cerco di trasmettere è che il mondo vero ha bisogno di regole, di qualche trasgressione e di molta curiosità. Apprendere tutto questo con il sorriso mi sembra un ottimo risultato». Non hai l’impressione a volte di vivere dentro una bolla?«Un po’ come Alice nel paese delle meraviglie, riconosco che la mia rischia di essere una doppia vita: digitale e reale. E noto sempre più spesso che quella digitale racchiude un terzo e forse perfino la metà della vita reale. Io stesso esisto come avatar digitale, con il ciuffo, la maglietta rossa e l’aria un po’stralunata. E poi c’è Kenny, che sono sempre io, a dialogare con i miei piccoli amici. A volte mi propongo come youtuber perché chi mi vede capisca chi c’è realmente dietro le battute. Mi capita anche di dire: ragazzi, con le mie freddure vi racconto la mia vita».Dicevi di essere nato ad Arezzo.«Sì, mio padre è di Terontola, vicino Cortona. Vi ho fatto le elementari e oggi sono un vip per quei quattro gatti che ci abitano. Alle medie e alle superiori, fatte ad Arezzo, ho capito che avrei potuto fare il fumettista. Mi piacevano Lupo Alberto, i Peanuts, Mafalda e Sturmtruppen. Oltre a saper disegnare bene ho anche imparato a nuotare bene. Mi è servito? Sì, anche il nuoto ha avuto la sua importanza. Ho vinto gare regionali e ho capito che raggiungere dei traguardi è fondamentale. Come un traguardo è stato il matrimonio. La mia compagna è maestra in una scuola materna. Mi ha insegnato il rispetto per i bambini. Mi ha fatto capire che sono creature perfettamente autonome. A loro devo tutto».Ti senti l’alternativa a Zerocalcare?«Abitiamo due mondi diversi. Ammiro il suo genio per l’impegno».