Robinson, 3 dicembre 2022
Le interviste di Celati
«A Gianni Celati piaceva molto parlare». Marco Belpoliti scrive così proprio nell’incipit dell’introduzione, diffusa e informativa, con cui si apre il più recente dei suoi lavori sull’opera dell’amico e maestro. Dopo avergli dedicato due numeri monografici della rivista- libro Riga ( con Marco Sironi e Anna Stefi), dopo averne curato il Meridiano Mondadori ( con Nunzia Palmieri) ora ( con Anna Stefi) Belpoliti ha allestito un’ampia antologia delle interviste allo scrittore (e critico, regista, traduttore, poeta, saltimbanco oltre che punto di riferimento letterario e affettivo di molti altri scrittori e letterati). Grazie al volume di Quodlibet questa disponibilità alla chiacchiera ora si dispiega a favore di ogni lettore, in particolare di quelli che dei libri scritti da Celati con la penna abbiano colto la ricerca della resa del discorso orale. Le interviste sono più o meno la metà delle 131 sinora censite e sono state rilasciate tra il 1974 e il 2014: quarant’anni in cui Celati ha cambiato molte attività, residenze, interessi. Nei primi romanzi assumeva in prima persona, volta per volta, la lingua del pazzo, dell’adolescente, del disadattato, dell’innamorato, con effetti di comico caotico e pulsionale. Questa parte della sua produzione è raccontata in retrospettiva, perchéCelati è stato intervistato soprattutto dopo la svolta degli anni Ottanta quando, a partire dal lavoro con il fotografo Luigi Ghirri e dalle novelle dei Narratori delle pianure, si è inoltrato per territori, paesaggi e “apparenze” non sempre ingannevoli. Esplorava così la possibilità di rappresentare l’ovvio, il banale, l’indistinto non più dal punto di vista esterno dell’anormale ma dall’interno. Un traduttore di Swift, Joyce, Céline e Barthes, un lettore di Wittgenstein e Derrida, un appassionato di sociolinguistica degli slang scrive su un bloc- notes mentre cammina su strade secondarie tra “villette geometrili” o tra i poderi verso il delta del Po. Uno scrittore anomalo alla ricerca della normalità. Oltre a interviste ai giornali, in cui Celati alternava pazienze e impazienze, sono raccolte anche conversazioni più distese, incontri con scuole e seminari universitari, dove appare più chiaro quanto poco avessero di ingenuo l’anelito a una personale semplicità, sia pure non propriamente francescana e la posizione appartata rispetto ai luoghi del potere culturale. I temi che ricorrono sono: lafinzione e l’ovvietà; la letteratura realista a cui opporre non solo quella fantastica ma anche la realtà stessa; la narrazione come cerimoniale; la differenza tra l’universo chiuso del romanzo e l’apertura della novella, intesa come racconto metamorfico di ciò che è stato già raccontato e depositato in una tradizione mai definitivamenteistituita. L’intervista da cui la raccolta deriva il suo titolo immaginoso è una delle più rappresentative e a farla è stato Severino Cesari, che allora ( 1989) curava le pagine culturali delManifesto e non era ancora il cofondatore di Stile Libero, collana einaudiana di grande successo. A una sua domanda su cosa sia il narrare Celati risponde: «Il linguaggio e le sue forme si trasmettono nella mitezza, di madre in figlio, di nonno in nipote. Così si trasmettono le favole, i poemi epici, le poesie. Un transito calmo delle parole». L’affermazione forse è sufficiente a spiegare quel tanto di infantile che nel tono ancor più che nel senso le parole di Celati riproducono: e l’insistenza sulla favola, l’umoralità bizzosa e l’incostanza pinocchiesca, il rifiuto della normatività ma anche una certa normatività del trasgressore, che emerge non del tutto mitemente quando Celati corregge e riprende l’intervistatore o l’intervistatrice che ha formulato una domanda di pertinenza per lui scarsa. Molto dipendeva da chi fosse a intervistarlo, certo. Ed è per questo che il Celati forse più spontaneo e celatiano è infine quello della prima (esilarante) delle due conversazioni con Roberto “Freak” Antoni, già allievo e quindi cantante del gruppo demenziale Skiantos. È il 1979. Antoni vorrebbe intervistarlo sui Beatles e la vertigine del rock, ma Celati scantona: «Non potrei parlarti della filosofia di Heidegger?». «È un cantante?», si informa allora l’allievo.I due riusciranno effettivamente a parlare sia dei Beatles sia del filosofo (il cui nome si trasforma ignominiosamente in High Digger, High Bigger, High Tiger..), più di venti pagine di sketch deragliante che però offrono storia e esegesi di molte canzoni dei Beatles, confronti con Jimi Hendrix, paralleli coi fratelli Marx. Senza tener conto di quest’allegria non si capirebbe perché Celati non sia stato per noi un cupo Cioran ma casomai una specie di cùpido Queneau: un agitatore della normalità, che usa le parole per far tremolare la nostra visione del mondo, nel fremito dell’ilarità e del desiderio e nel vacillare delle nostre stanchezze.