Robinson, 3 dicembre 2022
Il Luchino di Testori moltiplicato da Giovanni Agosti
Il Luchino di Giovanni Testori è il classico “libro ritrovato”, un dattiloscritto che la vulgata riteneva distrutto, riemerso gloriosamente fra le carte dello scrittore. Luchino (ma il titolo è redazionale, essendone il dattiloscritto sprovvisto) è un acuto e affettuoso ritratto di Visconti, composto da Giovanni Testori dopo le due importanti collaborazioni con il regista, Rocco e i suoi fratellial cinema e l’Arialda in teatro. Non è datato ma gli indizi portano ai primi mesi del 1972, fraMorte a Venezia e Ludwig, dopo un esaurimento nervoso di Testori e prima che Visconti fosse colpito da un ictus: un testo tardo, di ricapitolazione artistica e soprattutto umana. Mezzo secolo fa, questi cinquantaquattro fogli avevano preso la strada della Feltrinelli, la casa editrice in cui oggi trovano finalmentealbergo. Altri editori si sarebbero limitati al solo scritto di Testori, con un’introduzione a fornire le coordinate filologiche del caso – e ne sarebbe venuto un libretto-chicca per gli appassionati del Conte Rosso; si è invece deciso di affidare il testo a un curatore che tra introduzione, prefazione, note, foto e apparati vari lo ha sviluppato fino a farlo diventare cinque o sei volte più ampio – ed è uno dei pregi fondamentali del volume. Nel suo scritto, Testori scava in modo suggestivo nel lavoro e nella psiche di Visconti, ne scandaglia l’arroganza, la volgarità, l’erotismo insieme violento e paterno; indica nella scomparsa della madre il motore segreto della sua creatività, e capovolge il luogo comune del metteur en scène maniacale e decadente in un demiurgo che usa l’eccesso per arrivare al vuoto. Il tutto con la tipica prosa testoriana, realista e barocca, spirituale e terragna, serissimamente e orgogliosamente lombarda. Qualchestralcio: «Della fatica Visconti s’è fatto un metodo di vita; quasi un gusto, una vendetta e, insieme, un piacere»; «la provocazione fa parte della sua natura; gli viene, per così dire, dai lombi»; «mi chiedo se, nel mondo poetico di Luchino, l’alterità al fanatismo lombardo, milanese e navigliesco della fatica e della costruzione a tutti i costi, non stia proprio in questa duplicità tra fuga dal proprio destino e attrazione verso la propria morte». E questa, illuminante: «Luchino inclina agli stati incestuosi, pervertiti e invertiti, insomma agli stati morbosi; ma proprio quando vi sembra immerso e quasi messo a mollo come una ranaccia dentro il limo, il suo occhio lucente volge quegli stati verso la loro definizione storica e morale». Sarebbe piaciuto questo testo a Visconti? Avrebbe apprezzato la stima di cui queste pagine sono intrise, o, indispettito dalla profondità con cui Testori usò il suo bisturi, si sarebbe opposto a che andassero in tipografia? Le ragioni per cui il libro all’epoca non venne pubblicato rimangono misteriose. In quel 1972 l’editore designato, Giangiacomo Feltrinelli, veniva ritrovato cadavere ai piedi di un traliccio di Segrate, mandando a monte progetti e ipotesi di lavoro. Ma l’evento decisivo pare sia stato un altro, assai meno epico: durante le riprese di Ludwig, Visconti fece una delle sue celebri scenate a Alain Toubas, giovane amante di Testori, al quale era stata concessa una minuscola parte d’attore; il regista lo sgridò davanti a tutti e subito dopo lo sostituì con un macchinista della troupe (e pare che Toubas si fosse già visto tagliare un’altra comparsata dal montato finale della Caduta degli dei).Di lì in poi Testori indirizzò all’ormai ex amico Luchino insulti in prosa e in versi. Visconti morirà quattro anni dopo, senza riappacificazioni; nel commemorarlo alla Scala, Testori farà «pubblica ammenda» chiedendogli perdono. Ma lo scritto di Testori, come si diceva, è solo una porzione di questo libro straordinario e stratificato: le chiose che il curatore Giovanni Agosti gli dedica, con un’acribia filologica che restituisce la passione di una vita, avrebbero potuto esprimere non uno ma dieci libri, riprendendo aspetti, da Testori ricordati o anche solo sfiorati, che nelle note e nei commenti diventano veri e propri saggi dentro il saggio: le case di Visconti, il progetto di film dalla Recherche, il sodalizio con la Callas, i rapporti con Pasolini, le traversie dell’Arialda, le malìe (e le manìe) antiquarie, i legami con i pittori antichi e contemporanei, e così via in un vertiginoso concatenarsi di erudizione e aneddotica. Nel cumulo di citazioni, una delle più strazianti è la risposta che Visconti diede a Vera Marzot sul suo essere aristocratico e comunista: «Io voto contro i miei privilegi; se fossi santo, se fossi San Francesco, mi priverei di tutto. Ma non sono così eroico. Voto comunista perché credo che quella è la direzione verso cui deve andare la storia, voto per quell’avvenire più giusto, e lo so che sarà il funerale del mondo cui appartengo e che amo».