Robinson, 3 dicembre 2022
Come Salgari immaginò il Duemila
Centoquindici anni fa, Emilio Salgari si immaginò il futuro. O per meglio dire si immaginò noi, e come saremmo sopravvissuti. Correva l’anno 1907, i due conflitti mondiali erano ancora tutti da combattere e da scrivere, le grandi piaghe del Novecento ancora inimmaginabili, ma l’acume di Salgari (unito alla sua fervida fantasia) lo portò a mettere nero su bianco una visione del 2003. I protagonisti de Le meraviglie del Duemila si sottopongono a un bizzarro esperimento fra lo scientifico e il magico, che potremmo definire una cariogenesi con successivo risveglio, 96 anni dopo. E a quel punto, cosa vedono? La domanda è stimolante nella misura in cui ci dispiega quale fosse il punto di vista dei nostri tris-bis-nonni sull’avvenire, e dunque su quali elementi si sarebbe retto o incrinato l’equilibrio planetario. Ebbene, ecco la risposta: nel 1907 Salgari anticipa l’evoluzione della comunicazione (preconizza una società iper-informata, con una specie di posta elettronica mattutina), così come centra il bersaglio descrivendo la rete dei trasporti, l’evoluzione dell’industria, la mutazione irreversibile del paesaggio e dell’agricoltura su vasta scala. Certo, ci sono licenze fantascientifiche come la coabitazione coi marziani, le lunghissime gallerie polari e le città subacquee, ma al netto di questi eccessi, ciò che non può non colpire è la preveggenza dell’autore nel delineare la nevrosi, lo smarrimento collettivo, perfino la desolazione del Terzo Millennio, di fatto tratteggiato come il paradosso di un Eden hi-tech i cui comfort non solo non hanno risolto, ma anzi incrementato solitudine e alienazione. Insomma, non ai posteri, ma agli antenati l’ardua sentenza.