La Stampa, 3 dicembre 2022
Le parallele che si incontrano
Nella geometria euclidea esiste l’assioma per cui le rette parallele non si incontrano mai e possono così proseguire all’infinito il loro percorso. Nella vita funziona diversamente: se qualcuno disegna per sé due esistenze e pensa di poterle condurre per sempre indisturbato commette un errore. Non vede quel punto lontano in cui inevitabilmente si intersecheranno, smentendo l’assioma. E lì nascerà la tragedia. L’ultimo ad averlo dimostrato è Riccardo Faggin, il giovane che aveva raccontato ai suoi genitori di aver superato tutti gli esami ed essere prossimo alla laurea. Uno schianto in auto, volontario o no che sia stato, gli ha evitato di affrontare le conseguenze di una bugia che forse, con sua stessa sorpresa, sarebbe stata tollerata. Perché non era solo nel suo personale inferno. Esiste addirittura un film, Festa di laurea appunto, di Pupi Avati, in cui la protagonista celebra un esito mai avvenuto. La differenza è che lì tutti sanno, sono complici, fanno finta per decoro e ipocrisia e forse inscenano un dramma ancor più amaro.Il prototipo più clamoroso di uomo smarrito in una vita immaginaria è Jean-Claude Romand, protagonista di un caso di cronaca e del libro di Emanuel Carrère L’avversario. Cittadino francese, Romand per diciassette anni si alzò ogni mattina, salì in auto, varcò il vicino confine svizzero e parcheggiò nei pressi della sede dell’Organizzazione mondiale della Sanità dove diceva di lavorare (alla moglie mostrò un giorno perfino la finestra del suo pseudo-studio). Come Faggin, non si era mai laureato, non era un medico, non aveva un impiego. Aveva sì, un’amante e con i suoi prestiti e quelli degli altri familiari era riuscito a tenere a galla la barca fallata della sua doppia vita, finché le presunte parallele iniziarono ad accostarsi, correndo verso il punto d’incontro. E prima che lo raggiungessero, una mattina di gennaio del 1993, uccise la moglie e i due figli. Successivamente i genitori. Fallì il suicidio. Fu condannato all’ergastolo. Carrère sostiene addirittura che la sua è una storia universale. Nella sua casa di Parigi me lo spiegò così: «La cosa affascinante in lui era lo scarto tra l’immagine che proiettava di sé all’esterno, quella di un medico affermato, padre di famiglia modello e la coscienza di sé che aveva interiormente, quella di un impostore. Dov’è l’universalità? Nel fatto che tutti, a livelli diversi, siamo un bluff. Romand all’estremo, ma tutti, me compreso, abbiamo uno scarto tra immagine e realtà. E ne soffriamo».Non per questo si smette di recitare due parti in commedia, non finché il sipario comincia ad abbassarsi preannunciando il gran finale. Il più classico degli equilibristi su due fili è il bigamo, o qualcosa che gli somiglia. Nell’aprile 2011 la cronaca nera si occupò di un militare, il maggiore Salvatore Parolisi, la cui moglie era stata uccisa nei boschi con 35 coltellate. L’uomo aveva una relazione con un’altra donna, più giovane. Averla fatta franca a lungo lo indusse a credere di poter aver davvero due vite. All’avvicinarsi delle vacanze di Pasqua prenotò due viaggi: uno in montagna con la moglie e la figlia e un altro al mare con l’amante e i genitori di lei. Si aggrappò alle parallele finché non lo strinsero nella morsa che lo trasformò in un assassino. Condannato a vent’anni è già libero di vivere la sua unica esistenza. Che non si rendesse conto dell’impossibile ubiquità di Pasqua appare incredibile, eppure.C’è un caso ancora più assurdo: è quello di uno dei dirottatori kamikaze dell’11 settembre 2001, il libanese Zyad Jarrah. Il giorno precedente fece testamento, perché sapeva che stava per morire e scrisse una lettera d’addio alla fidanzata lontana. Poi la chiamò e le annunciò una favolosa cerimonia di nozze a Beirut, per cui le chiese di fissare le date. Quali date? L’indomani era l’unica che gli rimanesse. Invece andò avanti e indietro nel tempo che non avrebbe avuto. Sembrava convinto di potersi ammazzare e poi sposarsi. L’inversione di un ordine logico e cronologico è l’effetto. La causa è il distacco da una realtà che non soddisfa né sé né gli altri. Allora si proietta sul muro della propria caverna un’immagine ingigantita, le si attribuisce una felicità estranea, si balla al ritmo di una musica che non c’è.Un soggetto pubblico che appare preda della stessa sindrome è il segretario della Lega, Matteo Salvini. Ha ottenuto alle elezioni meno della metà dei voti sperati, continua a scendere nei sondaggi, si aggrappa a una trascorsa potenza, rifiuta l’idea di essere quello sul carrozzino laterale del sidecar mentre Giorgia Meloni guida la moto, si atteggia a leader, se la racconta e forse ci crede. Quando si dovrà accorgere che così non è sarà un dramma personale e politico, ma sopravviverà e sopravviveremo. Altri non ce l’hanno fatta perché le due rette si sono strette come un groppo alla loro gola.Le ghirlande rosse montate sui davanzali a casa Faggin sono state portate via con doppia tristezza: per quel che è accaduto e, forse ancor di più, per la consapevolezza che la verità non sarebbe stata insostenibile per gli altri. Che avrebbero potuto tornare a casa tutti: Riccardo, Jean-Claude, Salvatore, Zyad. Che sarebbero stati capiti. Perché ha ragione Carrère: a livelli diversi, tutti bluffiamo