Tuttolibri, 3 dicembre 2022
I vizi di Ugo Nespolo
Diceva Matisse che chi vuole dedicarsi alla pittura deve per prima cosa tagliarsi la lingua. Aveva torto. Non è vero che un artista non abbia niente da dire e, in ogni caso, non debba dirlo. Anzi la prospettiva, la conoscenza, l’esperienza di chi è del mestiere può essere preziosa, soprattutto in tempi come i nostri in cui un artista è prima di tutto un intellettuale, tanto che anche la parola «pittore» sembra inadeguata a definirlo. Lo dimostra anche Vizi d’arte, l’ultimo, effervescente libro di Ugo Nespolo. Il volume raccoglie i suoi scritti pubblicati negli ultimi cinque anni sul Foglio ed episodicamente sulla Stampa e sulla rivista messinese “La Scuola delle Cose”. È una lettura più che stimolante, perché ogni capitolo è un mondo e ogni mondo è colmo di riferimenti spesso sconosciuti e comunque imprevedibili. Abbiamo scritto «spesso» per darci l’aria di persone colte, ma l’avverbio è un eufemismo perché Nespolo è un artista di vaste letture e curiosità, e non è facile stargli alla pari. Così, per fare qualche esempio, parla tranquillamente del «sommo saggista inglese William Hazlitt», come di Alain Locke o delle «ben note Mellon Lectures», e il lettore comune – in questo caso noi – non ha mai sentito nominare né gli uni né le altre. Ma nessuno pensi a un libro specialistico, professorale. Tutt’altro. Tanti riferimenti possono sfuggire, ma Nespolo spiega che cosa sono e il suo discorso, pur denso, non è per nulla paludato, anzi è impertinente e soffuso di ironia. Tra le pagine, poi, è capace di inserire saporite irruzioni nella vita quotidiana, come in questo incipit del capitolo «Elogio del panciafichismo»: «Avevo cominciato a mondare e lavare le cipolle e poi con molta cura affettarle sottili sottili, ovviamente seguendo la ricetta, prima di iniziare a cuocerle per dieci minuti in padella con olio e sale. Stop a quadri e libri, m’ero detto…». In modo uguale e contrario, qualche volta ci mette invece a parte di uno stato d’animo malinconico, in cui si avverte anche un accento autobiografico, come nel capitolo «In my Solitude»: «L’artista si abbandona alla solitudine e, come scrive Goethe: “Ahimè è presto solo”. Davvero». O nel capitolo «L’estetica della sovversione»: «Eccoci a vivere l’epoca nostra, quella che, a sentire il poeta, non pare davvero attrezzata per l’allegria». I capitoli dei Vizi, tutti brevi, sono una cinquantina, divisi fra recensioni e osservazioni o, meglio, fra divagazioni che muovono da un libro o da una mostra e divagazioni che muovono da un concetto o una tendenza artistica. Dove, si intende, la divagazione non è un parlare d’altro, ma un restare nel tema, facendo un po’ come Cristoforo Colombo: raggiungere il Levante attraverso il Ponente per scoprire qualcosa di nuovo. Del resto non ci si potrebbe aspettare altro da un artista come Nespolo, che è stato uno degli aderenti a Fluxus, uno dei fondatori con Baj della Patafisica, e forse uno degli ultimi futuristi. E che, non imprevedibilmente, rivela anche qualche nostalgia dell’armonia classica, come nel capitolo «L’arte è un numero», dove riflette sulla sezione aurea, ritrovata nel Rinascimento, ma anche in Dalì e nella regia di Ejzenstein, che se ne serve in alcune scene della Corazzata Potëmkin. Il comun denominatore del libro è appunto l’arte, che per Nespolo parte sempre da Duchamp. Ma sarebbe impossibile ridurre a concetti unitari le pagine del volume, che spaziano dall’estetica alla psicoanalisi, dal cinema al fumetto alla televisione. Sarebbe come sintetizzare un volo di farfalle. Del resto l’autore stesso dichiara con Gombrich: «Non esiste in realtà una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti». Forse però un comun denominatore nel libro c’è. È l’amore per la libertà dell’arte, che può anche coincidere con l’arte della libertà. Lo vediamo nel capitolo dedicato all’astrattismo, che esordisce con una domanda poco apologetica («A che serve l’arte astratta? Di quale interesse può essere per noi l’arbitraria, criptica e sovente nebulosa strada scelta dagli artisti che si ostinano a evitare la rappresentazione della realtà?»), ma poi arriva a concludere che l’astrazione è soprattutto «un gesto di totale libertà». O, almeno, così si spera. Non bisogna pensare però che un tale amore finisca per giustificare, necessariamente, il culto di tutte le ricerche d’avanguardia. Al contrario. Si veda, per esempio, il ritrattino velenoso di un Basquiat «dal background piccolo borghese con un padre che viaggia in Mercedes», protetto da Warhol con cui condivide «credenze e valori, superficialità, soldi e fama». Le utopie rivoluzionarie degli inizi del Novecento, dal futurismo al dadaismo al surrealismo, hanno lasciato posto a qualcosa di più funzionale al mercato. E in fondo, come Nespolo sa bene, si potrebbe dire, parafrasando Flaiano, che l’accademismo si divide in due categorie: l’accademia propriamente detta e l’avanguardia diventata accademia.