Tuttolibri, 3 dicembre 2022
Come navigò Colombo
Il 1492 è probabilmente la data più ricordata dai viventi, nonché tra le più celebri della storia. Ma sul viaggio che portò Cristoforo Colombo dall’Europa alle Antille, l’avventura che gli Occidentali hanno mitizzato nella «scoperta dell’America», molte restano ancora le pagine ignote ai più. Quel che affiora, anche in ambito accademico, è spesso un incrocio tra la leggenda e la semplificazione, oppure frutto della recente spinta critica sull’impatto imperialista e genocida che quella spedizione innescò sulle nazioni native. Antonio Musarra, docente di Storia medievale alla Sapienza, regala a neofiti e appassionati quelle pagine mancanti. Nel suo 1942 Diario del primo viaggio evita la lettura politica, pur fornendo chiari e sinceri strumenti per collocare le cose al posto giusto, e fissa lo sguardo sulla vita di bordo. Sulle azioni dei marinai, sul loro governo di vele e timoni, ma anche di fame e incubi, sulle indiscutibili capacità dell’ammiraglio e sui litigi e gli screzi che hanno caratterizzato la navigazione e i primi giorni sulla terra ferma. Colombo, come tutti gli uomini di mare dell’epoca, era certo della rotondità del globo: solo aveva l’ardire di credere possibile l’impresa di attraversare l’Atlantico. Questo (anche) per un fatto matematico: stimò la distanza fra le Canarie e l’Asia in soli 4.450 chilometri (2400 miglia), a fronte dei 19.600 reali. Traeva la forza dalle sue esperienze, anche da quelle di corsaro, ma l’immortalità di quel viaggio è dovuta a un colossale misunderstanding: cercava il Catai di Marco Polo e invece trovò Cipango.A bordo c’erano 86 marinai, tre erano italiani. Salirono anche qualche chirurgo, un sarto, un argentiere, un interprete (parlava arabo e caldeo), qualche ispettore regio. Malviventi? Pochi. Tutti stipati sulle tre mitiche imbarcazioni: due caravelle e una nao (ossia una grande nave normalmente adibita al trasporto di uomini e bestiame). Le caravelle, la Niña e la Pinta, ciascuna con 24 uomini d’equipaggio, stimate tra le 30 e le 40 tonnellate di stazza, lunghe una ventina di metri e larghe sei, erano più rapide; la Santa María era lenta e condizionò molte dinamiche di viaggio.Gli alberi delle caravelle erano tre, in partenza con vele latine, che permettevano di stringere rispetto alle quadre, mantenendo un angolo fra i 60 e i 37 gradi. Alle Canarie issarono le quadre, così da favorire l’andatura di bolina. Il tempo a bordo era scandito da una sorta di clessidra che durava mezzora, il pasto era distribuito una sola volta al giorno attorno al pentolone. Quando era difficile tenere la fiamma accesa, la razione si limitava a cibi salati: carne, aringhe o merluzzo, formaggio e noci o pancetta, oltre all’immancabile biscotto, messo a bagno nel vino prima di mangiarlo.La rotta doveva sfiorare il 25° parallelo Sud e Colombo vi riuscì grazie a quello che molti considerano la sua arma segreta, la conoscenza degli alisei e delle loro regole: nell’emisfero boreale spirano da nord-est verso sud-ovest; in quello australe, da sud-est verso nord-ovest. La rotta era dettata dallo studio delle stelle, con l’ausilio di bussole, compassi, ampolle, clessidre e artigianali strumenti a corda per la misurazione della velocità. Musarra suppone che Colombo «abbia navigato quasi sempre al lasco: con il vento a lato, se non al giardinetto, proveniente da una o due quarte da poppa, subendo, pertanto, uno scarroccio modesto». L’ammiraglio si accorse piuttosto presto che i conti non tornavano e prese a falsificare i dati per la ciurma: nascondeva le distanze realmente coperte. A fine settembre i marinai pensavano di aver percorso 584 leghe, in realtà erano 707.Alla fine, furono gli stormi degli uccelli a indicare la rotta. Colombo raccontò di aver visto una piccola fiamma poco prima che Rodrigo de Triana, marinaio della Pinta, dopo qualche falso avvistamento, urlò finalmente di aver visto «terra». Nessuno sa con certezza quale fosse quell’isola, che i nativi, con i quali la spedizione entrò immediatamente in contatto, chiamavano Guanahaní e che Colombo ribattezzò San Salvador.Non si fermarono, costeggiarono le isole fino al giorno di Natale, raggiungendo l’attuale Cuba e poi Haiti. Una navigazione difficile tra bassi fondali e una «gran catena di scogli»: la barriera corallina. Colombo ammainò le vele e procedette «con il trevo, che è la vela maggiore, senza bonette, navigando alla cappa» tra i canyon sottomarini. La notte di Natale, la Santa Maria s’incagliò e fu abbandonata: il nostromo aveva lasciato il timone a un mozzo inesperto. Così nacque l’insediamento di Hispaniola.Il 18 gennaio le prue tornarono a puntare l’Europa ma il 12 febbraio una devastante tempesta colpì a lungo le due caravelle: Colombo mise la Niña in modo da avere il mare al mascone, con le onde a 45 gradi, per scarrocciare sottovento; ma questo gli faceva imbarcare acqua, quindi ordinò di fuggire e di navigare con il vento in poppa. Nel momento peggiore, comparvero all’orizzonte le Azzorre.
Antonio Musarra 1492 Laterza