Tuttolibri, 3 dicembre 2022
Scòzzari e l’arte di far fumetti
Se chiedi a Filippo Scòzzari che effetto gli fa, a distanza di quarant’anni, venire associato alle rivoluzionarie riviste Cannibale e Frigidaire, la risposta spiazza: «Mi fa venire i nervi: ho avuto una vita creativa precedente a quelle avventure, e una ancor più lunga dopo. I nervi che vengono a Paul McCartney quando ancora gli chiedono dei Beatles, presente?».Com’erano l’Italia e il fumetto italiano quando ha cominciato?«Ho sempre voluto fare fumetti fin da bambino. Ero circondato da quelle che oggi giudico autentiche puttanate, truffe per nullatenenti mentali: Tex, Capitan Miki, Il grande Blek, l’Intrepido, Topolino. Ma allora m’ingozzavo di tutto: ero un bimbo e non avevo la capacità di scegliere, di costruirmi una personale classifica Buono/Schifoso. Ma aggiungo che abbastanza presto le case degli amichetti, veri antri dei desideri, ripieni di meraviglie concesse da genitori meno arcigni dei miei, cominciarono a siringarmi strane insoddisfazioni e cominciai a costruirmi personalissime corazze anti-boiate, confrontando personaggi, storie, formati e colori (rarissimi): Paperino sì, Tex sì, Nembo Kid sì, ma Capitan Miki, Pecos Bill, Mandrake, Cino e Franco mai, morissi secco».Quando con Mattioli, Tamburini, Pazienza e Liberatore creaste Cannibale e Frigidaire fare fumetti diversi era un’intenzione condivisa?«Sì. Eravamo cinque autori molto differenti, accomunati però dalla nausea nei confronti delle edicole e dalla consapevolezza lancinante e rabbiosa che Il Nuovo, se proprio lo volevamo, avremmo dovuto metterlo al mondo noi, non certo le cosiddette Grandi Case Editrici. Questa soluzione per la sopravvivenza mentale, fermentando e ribollendo, sperimentando, studiando e scalpitando, attraverso meccanismi e accadimenti sui quali non mi dilungo, ci fece poi incontrare. Cinque cervelli che poterono toccarsi, confrontarsi, ugualmente dotati di una tecnica sopraffina, soprattutto nel modo di immettere su carta le proprie noie, disgusti e insoddisfazioni. Cinque fuoriclasse che si sono ritrovati per caso – o per volere degli astri – nella stessa trincea contro lo stesso nemico. La vita a volte fa regali giganteschi».Com’era lavorare insieme?«Senza sfidarci, duellavamo sulla qualità: ad ogni numero volevo stupire i miei complici e loro volevano stupire me. Non c’era inimicizia: sapevamo di appartenere alla stessa tribù per gusto, cultura e voglia di rompere le scatole, il che impediva che si scatenassero risse al coltello. O almeno lo ha impedito per un po’. Non avevamo una redazione e ci ritrovavamo tutti a casa di Mattioli o da Pasqualino, un ristorante vicino casa sua, dietro al Colosseo. Sceso dal treno squadernavo sui tavoli le mie trovate, attento a non rompere i bicchieri. E Pazienza sceso dal treno faceva lo stesso. Eravamo avvolti dai profumi della cicorietta ripassata ’n padella che Tamburini ordinava sempre. Quegli anni me li sento ancora profumare di aglio».Il movimento politico del ‘77 contribuì al vostro lavoro? Eravate suoi figli?«Quell’afflato libertario che per una brevissima stagione strigliò l’Italia può darsi ci abbia indicato la strada, affinato il linguaggio, appuntiti i contenuti e gli approcci. Ma era tale il distacco esistenziale che ci separava dal movimento che non avevamo nessuna voglia di immergervi le mani. A torto o a ragione, ci consideravamo superiori. E distantissimi. Volevamo, dovevamo creare mondi, i nostri mondi, non avevamo né tempo né voglia per le scemenze degli altri. Non ci interessava metter pezze alla Realtà. La Realtà… dai suoi orrori traevamo suggestioni, ma ne evitavamo le malìe, l’unica risposta possibile. Non abbiamo mai indetto riunioni di redazione sullo stato del mondo, ma cazzo, ci era chiarissimo quel che dovevamo combinare: medicarlo».Com’è nata l’idea di creare le sue serie a fumetti?«Sapevo che le pagine di Cannibale e Frigidaire andavano riempite ogni mese. Se eri stato così bravo da inventarti un personaggio che funzionava, questo consentiva eventuali riprese seriali molto comode: dovevi solo perfezionare il mondo che gli avevi creato attorno la prima volta. Era un modo divertente per dribblare la difficoltà di inventarsi qualcosa di nuovo e contemporaneamente soddisfare la mia pigrizia. Con Primo Carnera ho preso una personalità precotta, un pugile relegato alla leggenda fascista e, prima su Cannibale poi su Frigidaire, l’ho decostruito, cambiandogli verso e agghindandolo con attributi insoliti per il fumetto italiano: affascinante stilista alla costante ricerca della Squisitezza. Senza dubbio un personaggio scozzarico. Il Dottor Jack fu invece un’indispettita, biliosa risposta alla Bologna zangheriana del 1977: un investigatore mezzo scemo al soldo del PCI che ogni volta porta a galla mondi incomprensibili per il PCI. Sembra inventato un’ora fa. Sono cambiati i mostri che ci circondano, oggi sembrano più pettinatini e hanno denti rifatti, ma la boria del reale è identica a quella che mi imbestialisce da quarant’anni».Vuoi parlarci un po’ di “Suor Dentona”?«Suor Dentona è un pamphlet contro la pornografia, la guerra, la fede, la mania di comandare e obbedire. Soprattutto è una presa per il culo dell’ignoranza. È una sfida contro molti bersagli, forse troppi, me lo dico da solo. Presuppone un pubblico che non si faccia impressionare da un apparato scenico volutamente outré e abbia voglia di scandagliare le ragioni per cui l’ho creata: perché siamo così imbecilli?».In “Suor Dentona” ha messo a punto un italiano molto ben caratterizzato, ed è uno dei suoi tratti distintivi. C’è una grande attenzione alla lingua in tutte le tue invenzioni, anche nei fumetti. Come mai?«Da ragazzo trovavo scipita ed elementare la lingua dei fumetti, finché non mi imbattei nel Paperino di Carl Barks, allora tradotto da Marcello Marchesi con un italiano molto più spiritoso e ficcante del testo originale, e in The Spirit di Will Eisner, anche quello tradotto alla grande. Ricordo che durante quelle scoperte pensavo: “Ma allora nei fumetti si riesce a parlare in maniera decente! Allora è possibile, per dio! Qualcuno lo fa!” Decisi di farlo anch’io. La mia via di Damasco. Scrivere fumetti mi ha insegnato, mi ha imposto la concisione. Non puoi inzeppare due tonnellate di testo in una vignetta: non c’è spazio e annoi. Poche frasi, e fulminanti. Questa obbligatoria stringatezza – disciplina, signori! – mi ha consentito di allenarmi prima con le farneticazioni di Suor Dentona poi, fatta la doccia e presa una tisana, di scrivere libri».Scegliere con cura le parole è ancora più imperativo in un’epoca in cui il politically correct rosicchia sempre più terreno alla satira?«Contro il politically correct vai a sbattere appena apri bocca o appena ti agiti, quindi se ti poni il problema sei morto. Devi restituire le cose come le senti, come le hai capite, come te le hanno dette, come le detesti, come le ami. Io SO di non essere un povero stronzo, quindi me ne fotto. Forse poi qualcuno più attrezzato di me mi prenderà da parte e m’insegnerà le cose che non ho ancora capito, come si sta al mondo, ma certo non sotto lo stendardo del politically correct. Chi ti oppone il suo politically correct sa solo rompere il tuo c.».Come è stato adattare “La dalia azzurra” e “Il Mar delle Blatte?”.«La fatica maggiore nel fare fumetti è quella di riflettere, avere un’idea e poi trasformarla in qualcosa di leggibile, soprattutto di sensato. Disegnare è mettere finalmente in bella quello che ti sei elargito in lunghe nottate di sigarette, e appunti, e foglietti, e tastiera e cispe agli occhi. Quando però t’imbatti in qualcuno che ha avuto un’idea che senti pazzescamente tua, come mi è successo con Landolfi e Chandler, ti viene risparmiata quella madornale fatica, tutta quella nicotina. È il festival della pigrizia, chi lo nega, ma hai anche incontrato un’altra bella testa. Ciao, solitudine. Non è male».Ha scritto anche un manuale su come fare fumetti, all’interno di “Memorie dell’arte bimba”. Come lo riassumerebbe?«Fare fumetti è in primo luogo una grandissima rottura di coglioni. Devi disegnare e ridisegnare lo stesso personaggio per pagine e pagine, una sorta di coazione a ripetere. Ma il punto fondamentale è che i fumetti prima si scrivono poi si disegnano. Senza allungare il brodo, occhio: imperativo. Se la scrittura è di serie A, la qualità del disegno è secondaria: alla benedetta parola FINE il tuo amico lettore lo porti con la tastiera, non con la matita (è un vero amico: ti ha scelto, ti ha comprato, ti ha portato a casa sua, se ne sta sul divano, o in bagno, con te sulle ginocchia. Trattalo come merita). La magia del fumetto può funzionare anche solo con le parole, quasi mai solo con i disegni. La magia del segno l’ha saputa usare unicamente Moebius, che sospettando di essere un cretino nelle sue meravigliose tavole usava pochissimo testo».Che cosa consiglierebbe a chi vuole fare fumetti?«Esaminarsi, poi rispondere a poche domande: sono abbastanza cattivo? Ho una dose sufficiente di tigna? Quello che mi sta intorno mi fa schifo a sufficienza? Del mondo ne so abbastanza? Ricordo bene mio padre? Se non sai risponderti è inutile tentare di crear qualcosa. Il Creativo Trionfante deve odiare la realtà. E riuscirà a farlo solo se ha avuto i genitori adatti».