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 2022  dicembre 03 Sabato calendario

La punteggiatura della Oates

Tempo fa su internet girava un post in cui venivano messe a confronto due pagine di letteratura americane a cui erano state tolte tutte le parole tranne la punteggiatura. Una era tratta da Cormac McCarthy e l’altra da William Faulkner: la prima, come è facile immaginare, era quasi laconica, una prateria svuotata con sporadiche apparizioni nere. L’altra, quella tratta da Faulkner, un guazzabuglio di interpunzioni che si affastellavano come cavalli indomiti e selvaggi. Traducendo Joyce Carol Oates, mi sono chiesta cosa ne sarebbe venuto fuori dal toglierle tutte le parole – torrenziali, specifiche – e ora che ho lavorato ai racconti di Notte al neon, posso dirlo con certezza: un’inondazione di parentesi, e di dighe fatte dai trattini.Nei racconti di Oates il suo modo ellittico e circolare di costruire le storie si svela con maggiore precisione, e si capiscono meglio i meccanismi su cui basa la sua personalissima strategia della tensione: mettere tutte quelle parentesi e quei trattini per suggerire un pensiero che si interrompe oppure uno che arriva a mangiarsene un altro, serve a far diventare la sua scrittura una vite che non si stringe. Questo crea un accanimento nel lettore, una tensione inquieta che vuole fissare la vite ma non ci riesce, poi alla fine la frase si incastra, qualcosa si allinea e uno quasi non sa che farsene della frustrazione che ha accumulato nel corpo. Magari lo spavento generato da alcuni racconti di Notte al neon dipende proprio da questo, da un accumulo di aspettativa senza sfogo, che poi si incanala in un delitto, in una fantasia di delitto, o nelle morti involontarie che procuriamo negli altri a partire da intenzioni che non sapevamo essere assassine.Se la punteggiatura abbondante e franta di Joyce Carol Oates è fondamentale per rispettarne la visione concettuale, come si fa a renderla in una lingua che al trattino preferisce il puntino sospensivo, e che ha altri modi per segnalare un ripensamento o una mutazione del discorso? In realtà questa questione vale anche all’interno di una stessa lingua, dato che la punteggiatura è l’espressione di un ritmo interiore che a volte può assumere connotazioni profondamente misteriose: leggere Emily Dickinson nelle sue edizioni classiche in inglese, significa leggerla in traduzione perché il suo modo di dare forma alle parole, usare gli spazi e le angolature non convenzionali impresse ai trattini è stato ricondotto a una forma «diplomatica» nella pubblicazione delle lettere e poesie, almeno fino a edizioni recenti, per facilitarne la comprensione. In tutti questi passaggi, Dickinson resta ancora un po’ straniera, segno che si può trattare la violazione della poesia fino a ridurla, ma non la si può curare completamente. È un buon principio per tradurre Joyce Carol Oates, che è molto diversa da Dickinson pur essendone una grande estimatrice; si riesce a tamponare la sensazione di non riuscire a penetrare le sue ellissi in maniera completa: se c’è un inglese letterario che oggi offre una resistenza positiva all’italiano è proprio quello di Oates, che non si fa addomesticare. Qualcosa che resiste e offre un conflitto: le storie di Notti al neon sono proprio così su un piano linguistico e sentimentale. Venendo al sentimento, il racconto che dà il titolo alla raccolta (Night, Neon in originale) è una meraviglia che mette in gioco una delle caratteristiche più acute dell’autrice americana: la capacità di tenere insieme la vita di un’adolescente, ragazza e poi donna sulla soglia della maternità attraverso un caleidoscopio di relazioni con il sesso maschile, in bilico tra il controllo e l’abuso, l’espressione di sé e lo schianto quando questa espressione viene umiliata.È un racconto struggente e magnetico e la sua protagonista Juliana mi accompagna ancora, soprattutto perché a differenza di un’altra donna segnata da un rapporto problematico con il padre – Marilyn Monroe in Blonde – non viene raccontata in maniera ossessiva e quasi monotematica, né viene privata di un’ambiguità che riesce a darle ricchezza e in alcune circostanze anche potere. Dopo un tentato stupro vicino a un bar col neon in Pennsylvania -«Prima, quando erano accalcati al tavolo, lui aveva riso delle cose stupide che aveva detto, fatta di erba e di birra, con quella voce acuta da bambina che faceva impazzire suo papà. Ma quando i ragazzi ridono, tu sai che ti feriranno. La risata dei ragazzi è come l’abbaiare dei cani» – Juliana cambia città e inizia a lavorare per i ricchi, con alcuni di loro si fidanza, ma continua a gravitare attorno ai bar con il neon per placare il desiderio di bere e anche quello di entrare in confidenza con gli estranei. Sono belle e veritiere le immagini in cui la vediamo riflessa nel vetro specchiato dietro al bancone, quando intravede schegge del suo viso tra le bottiglie: tradurre queste scene significa sentire la lingua di Oates quanto vedere la luce di Hopper, per andare a ritroso nei secoli e contemplare un quadro di Vermeer, Donna che legge una lettera davanti alla finestra. Nel racconto, Oates riesce a recuperare l’arte di una donna nello spazio chiuso, perché c’è sempre un momento nei bar di notte in cui quello spazio si restringe e diventa quasi una stanza da letto, in cui il cuore può spaccarsi senza che nessuno ne raccolga i pezzi.Per tornare a Marilyn, e ad altri cuori spaccati, nella raccolta appare Miss Golden Dreams 1949, che pone una questione non da poco, considerando quel che immaginiamo e sappiamo della vita di Monroe: e cioè come tradurre daddy. Nel racconto in cui la diva del cinema torna sotto forma di bambola assassina messa all’asta pronta a soddisfare tutte le fantasie dell’acquirente, daddy ricorre come locuzione ironica, priva dell’anelito e del bisogno che emerge nel film di Andre Dominik dedicato a Marilyn uscito da poco al cinema; qui Monroe si fa pienamente beffe delle figure patriarcali. L’uomo a cui si rivolge la bambola è uno sugar daddy, un vecchio che mantiene la giovane amante, ma la protagonista non può ricorrere al dileggio e deve restare seduttiva, bambina. Papino, paparino, papi, quale espressione sta davvero bene per questa distorsione orrorifica e mesta della figura paterna? La risposta è tutte e nessuna: perché ognuna farà pensare a quella figura, ma nessuno ne esaurirà mai il potenziale grottesco. È nello scarto, che sta l’horror.