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 2022  dicembre 03 Sabato calendario

I numeri di Musil

Concentrazione e dispersione, esattezza e indeterminatezza: intorno a questi due poli si articola L’uomo senza qualità di Robert Musil, e in essi ritroviamo pure una legge di alternanza che regola le nostre vite con svariati movimenti di slittamento e di oscillazione, secondo un automatismo di cui siamo a mala pena consapevoli. È come se il flusso di forze dipendenti da queste polarità dovesse adeguarsi a un principio fisico di generazione, di bilanciamento, di simmetrie o dissimmetrie: la concentrazione genera la dispersione, dall’esattezza proviene l’indeterminatezza, oppure tra l’una e l’altra si stabilisce un equilibrio, più spesso al ribasso, in conformità a una legge paragonabile a quella dei vasi comunicanti o della trasmissione del calore.

Si possono realizzare fenomeni di concentrazione o di esattezza in diverse e opposte circostanze, dal lavoro di un commerciante al colpo d’occhio di un abile fotografo, dall’attività di un ricercatore alla mossa vincente di un atleta, dal lavoro del tecnico allo scatto «geniale» di un cavallo da corsa. Questa è l’utopia della vita esatta, un marchio distintivo del romanzo, un esperimento mentale di cui Musil spiega i lati più insidiosi e paradossali, in accordo col principio generale che da una direzione segue di solito la direzione contraria. «L’utopia è l’esperimento in cui si osservano la probabile trasformazione di un elemento e gli effetti che essa produrrebbe in quel complicato fenomeno che chiamiamo vita. Ora, se l’elemento osservato è la stessa esattezza, lo si isola e lo si lascia sviluppare, lo si considera un’abitudine del pensiero (…) così si arriva a un uomo in cui si forma una paradossale combinazione di esattezza e indeterminatezza».
La genialità che proviene da un massimo di concentrazione si esprime di solito in un infinitesimo di tempo e di sforzo mentale o muscolare. Ma l’infinitesimo è, per sua natura, del tutto sproporzionato, e perciò incompatibile con le forme limitate dell’azione, sicché non si saprebbe spiegare in quale modo, alla fine, l’uomo esatto, geniale e concentrato possa trascorrere le sue giornate. Egli avrà sacrificato a una «immaginaria conflagrazione» la normalità e le forme predeterminate di un’etica adeguata, in buona parte, ai canoni della ragione e al principio del limite. Un processo, questo, segnato da una sorta di inesattezza, in cui non si esprime tanto il concetto di genio, quanto una sorta di omissione e di esagerazione, la tendenza a trascurare una differenza, tra il genio e il cavallo geniale, causata da una sfiducia generalmente condivisa per tutta la sfera più alta.
Un caso esemplare è la matematica, in cui si realizza un’estrema concentrazione ed economia del pensiero. Ma Ulrich deplora che la matematica, così ricca di idee rivoluzionarie, si sia spesso adattata a una prassi di arido consumo, in cui la risoluzione di problemi tecnici assorbe ogni attenzione, a discapito dei bisogni di un’anima che rimane esposta, per il resto, all’indeterminatezza e alla dispersione. Né ci si può facilmente affidare, per compenso, all’esperienza viva dell’amore o della mistica. Lo dimostra in modo magistrale Paul Arnheim, personaggio centrale del romanzo ispirato da Walther Rathenau, il celebre politico, industriale e scrittore tedesco incontrato da Musil a Monaco nel 1914.
Sempre nel 1914 Musil recensì un libro di Rathenau, Meccanica dello spirito, in un breve saggio dal titolo Nota a una metapsichica, in cui è spiegato come da una tensione analoga alla forza dell’amore, da una «forza di concentrazione indicibile», sia fatale procedere verso un irrigidimento, in cui l’intelletto cerca di fissare quella stessa forza di concentrazione in azioni e parole, in una norma o in una sistematicità fittizia e, per così dire, in un solido materiale di realizzazione. Subentra allora uno stato di dispersione perché, nello sforzo di bloccare e di rendere attivamente duraturo il principio etico del risveglio e dell’ascesa, viene a mancare proprio l’esperienza viva. La mistica del sentimento richiede infine di mutarsi in abitudini consolidate, in una mistica della ragione e del denaro, e dietro lo sforzo di attenzione «si apre un certo vuoto di sensazioni, e il contenuto dell’anima si disperde». L’esperienza tende così a congelarsi nel modello dell’«uomo attivo» già tratteggiato da Nietzsche in Umano, troppo umano: «Agli uomini attivi manca di solito l’attività superiore: voglio dire quella individuale. Essi sono attivi come funzionari, commercianti, dotti, cioè come rappresentanti di una specie, ma non come uomini determinati, singoli e unici... È la disgrazia degli attivi che la loro attività sia quasi sempre un po’ irragionevole. Gli attivi rotolano, come rotola la pietra, con la stupidità del meccanismo».
Arnheim è innamorato di Diotima, coinvolta nell’Azione Parallela per la celebrazione dell’anno giubilare dell’imperatore, e il suo amore punta a uno stato paragonabile all’esperienza ineffabile della mistica. Egli è pure autore di libri che prospettano un esemplare umano di grande valore, «l’uomo ricco di anima, portato all’amore, alla rinuncia, all’idea, all’intuizione, alla verità impavida». Il suo carattere è «fedele, magnanimo, indipendente; il suo contegno sicuro di sé, serenamente calmo, irremovibile». Sua prerogativa è la forza più che l’intelligenza, la ricchezza di esperienza e l’aspirazione al trascendente. Eppure un simile carattere non è affatto una garanzia. Della ricchezza di esperienza occorre anzi diffidare, poiché essa, notava Ulrich, l’uomo senza qualità del titolo, è uno dei segni precoci e più sottili da cui si riconosce l’uomo mediocre.

Arnheim rimane invischiato in un curioso conflitto. Di solito, essendo l’ethos, in tutta la sua varietà, parente prossimo del denaro, e tendendo l’anima a sostituire la logica alla morale, subentra un singolare bisogno di solidità e di ripetibilità che in ambito spirituale, oltre a deformare la purezza dei fini, implica pure una sorta di violenza. Accade allora ad Arnheim come a tutto il suo secolo: questo adora l’ordine, la scienza, il calcolare, «ossia in fin dei conti lo spirito del denaro e dei suoi affini, e nello stesso tempo lo deplora». Nell’attimo in cui Arnheim sta per precipitarsi ai piedi dell’amata Diotima, «senza riguardo al suo avvenire e ai suoi calzoni», una voce gli chiede di arrestarsi. È «la voce della ragione oppure, com’egli si diceva irritato, la voce dei conti e dei calcoli che oggi s’oppone dappertutto alla grandezza della vita, al mistero del sentimento».
Il problema di Arnheim è che lo spostamento di uno stato ideale al mondo della logica e della ragione lascia sguarnito proprio il dominio di esperienza e di ricchezza spirituale che egli vorrebbe conservare e fissare in maniera sicura, e in cui finiscono invece per prevalere una dispersione dell’anima e una sorta di inconcludente evaporazione di sentimenti. Lo stato ideale finisce col crescere e consolidarsi in un deludente equilibrio tra logica e mistica e in uno sforzo di composizione artificiosa, «una sorta di esasperazione del puzzle, in cui bisogna formare con un certo numero di pezzi delle figure predeterminate».
Il sopravvento del calcolo può perfino sposarsi a una sorta di crudeltà del pensiero che approva o disapprova univocamente, senza curarsi dei segreti della vita e della sofferenza. Di qui la fatale scissione tra razionale e irrazionale che Musil vedeva incarnata nella collettività come pure nell’anima di Moosbrugger, il grande criminale che, nel romanzo, è il punto limite, all’infinito, di un disorientamento e di un appiattimento indifferenziato in cui cose ed eventi non trovano più una loro ragione. Privo di tale ragione lo spirito si disperde in quella «immensa superficie», in quel grandioso tessuto onirico degli innumerevoli spettacoli artificiali della vita, dei viaggi in ogni dove, delle più suggestive immagini di semplice consumo, dei laboratori o degli uffici, fino al semplice fatto di essere attratto, di volta in volta, da questo o da quello. Alle suggestioni di fin de siècle noi aggiungeremmo oggi, come elemento non secondario, l’uso indiscriminato dell’informatica e l’incalcolabile profluvio di dati, con tutto l’armamentario di tecnologie deputate a trattarli: un effetto della generale sostituzione dei fini con i mezzi in cui L.E.J. Brouwer, il grande matematico del secolo scorso, vedeva la causa essenziale del male individuale e sociale. È pure vero, d’altronde, che la stessa informatica e la matematica più orientata alle applicazioni esterne possono rivendicare oggi un legittimo potere di influenza sulla parte più interna, più vitale e fondamentale della scienza e del pensiero, condizionandone scelte, finalità e orientamenti generali.

Arnheim patisce appunto la polarità di interno ed esterno, o di profondità e superficie, varianti della concentrazione e dispersione. Egli la tratteggia con una similitudine più consona al contesto dell’Impero asburgico: i secoli passati hanno forse «commesso un grave errore attribuendo tanto valore alla ragione e all’intelligenza, all’opinione, al concetto e al carattere; è stato come considerare registri e archivi la parte più importante di una pubblica amministrazione perché si trovano nella sede centrale, benché siano soltanto uffici secondari che ricevono ordini dal di fuori». Questi ordini dipendono, riflette Arnheim, dal gioco delle duttili e fantasiose forze spirituali che operano nel suo tempo, dal sempre più intenso e variegato movimento di pensieri e iniziative, in cui appare ogni volta più superflua «quella perdita di tempo che è l’elaborazione spirituale». Ma la propensione a vivere in superficie ha motivazioni più complesse e riposte, e la sua origine risale alle diverse trasformazioni del pensiero scientifico nel corso del tempo. Fin dal XVI secolo, ricorda Musil, la scienza si è liberata di due millenni di speculazione religiosa e filosofica, e ha iniziato «ad accontentarsi di esplorarne la superficie, in un modo che non si può fare a meno di chiamare superficiale». Musil pensa alle ricerche rivoluzionarie di Galileo, ma il passaggio critico risale a prima, a quando un poliedrico scienziato come Gerolamo Cardano suggeriva che la penetrazione dei segreti della natura doveva lasciare il posto alla sola indagine dei suoi meccanismi.
Alle polarità di concentrazione e dispersione, di esattezza e indeterminatezza, di profondità e di superficie se ne aggiungono altre, come quella di limite e illimitato, di «sensazione concava e convessa», di maschile e femminile, dell’«essere dentro una cosa» e del «guardare una cosa dal di fuori». Musil fa derivare queste opposizioni da un’antichissima forma di esperienza, da tradizioni filosofiche per noi pressoché incomprensibili, da una «doppia vista della natura» che potrebbe aver preceduto perfino la differenza dei sessi. Noi ricorderemmo anche le più antiche elaborazioni computazionali registrate lo scorso secolo da Otto Neugebauer, a proposito dell’antica matematica babilonese. Ricorrono, fin dal calcolo numerico di allora, approssimazioni per difetto ed eccesso, possibili oscillazioni tra il più e il meno che interverranno poi, oltre che nel calcolo, in ogni riflessione filosofica sulle fondamentali ambiguità del pensiero e dell’esperienza.
Ma qual è il rimedio all’indeterminatezza generata da un’esattezza o da concentrazione geniale? Non certo il rigetto della precisione e dell’analisi in cui si risolve l’etica di Arnheim, segnata da idee fruttuose in cui si concentra «un mistero che se la ride di tutti i calcoli». Un rimedio possibile, inscrivibile nella proposta di Ulrich di istituire un Segretariato terreno dell’esattezza e dell’anima, sta piuttosto nell’analisi statistica di problemi di grandi dimensioni o di situazioni caratterizzate da una radicale impossibilità di previsione deterministica. Tra le intenzioni e le finalità di un’azione e la sua realizzazione c’è un bilancio complicato; il caso imbroglia sempre le carte e la stessa vita individuale è solo una piccola oscillazione intorno al più probabile e deludente valore medio di una serie. Nelle serie di lungo periodo ogni cosa è bilanciata dal suo opposto: il male si compensa col bene, il difetto con l’eccesso, l’esatto con il vago e con l’impreciso e, come dimostra l’incontro fortuito di Ulrich con una giovane scienziata, la dottoressa Strastil, l’intelligenza scientifica può convivere con una sorta di idiozia spirituale.
Musil conosceva personalmente Richard von Mises, lo scienziato che, con la sua nozione di Collettivo, aveva avviato fin dal 1919 importanti ricerche sul concetto matematico di caso. Von Mises doveva ammettere la presenza di una legge – la legge dei grandi numeri – accanto all’imprevedibilità dell’esito di un singolo evento. Ed è allora alle leggi della statistica che Ulrich ricorre per rispondere ai «valori ultimi» propugnati con passionale intemperanza da Gerda e da Hans Sepp, o da chiunque pretendesse di dare l’assalto, con l’irruenza della volontà e dell’azione, all’infinita complessità del reale.
Oggi la scienza ha imparato a trarre profitto dallo stemperarsi, nella massa, delle eccezioni individuali. Se ne trova un’analogia in ambiti strettamente scientifici come il calcolo digitale, dove un numero limitato di operazioni aritmetiche può produrre errori catastrofici, mentre nel calcolo su grande scala gli errori possono compensarsi. Il caso ci aiuta, sosteneva Bruno de Finetti, e lo studio matematico dei concetti di caso e di probabilità potrebbe anche aiutare ad eludere l’indifferenza morale di fronte a una pluralità di eventi accidentali governata da un intrinseco automatismo. Per Aristotele il caso, in greco autòmaton, era ciò che si muove da sé, invano o senza scopo, simile alla pietra che ci rotola addosso senza avere l’intenzione di colpirci. Per questo è il frutto di una deviazione, di una disposizione verso un fine esterno, superficiale, non riconducibile a una legge interna riconoscibile. Così agisce, ne I sonnambuli di Hermann Broch, il disertore Huguenau, prototipo dell’uomo che ha smarrito una visione di insieme e vive a caso, sperso e vagante, senza coscienza e con perfetta noncuranza, senza darsi pensiero di nulla. Del resto è la fisica ad accertare, per usare le parole di Josef Maria Jauch, «l’esistenza di situazioni nelle quali il caso permane a dispetto di tutti gli sforzi per controllare al massimo le condizioni sperimentali». Ma non sta forse nella natura stessa della coscienza la cognizione dell’essenziale incompletezza dei nostri sforzi e dei nostri calcoli?
Nel corso dei suoi colloqui mistici con la sorella Agathe, un tentativo di sconfinamento interiore, «un viaggio sul limitare del possibile» che sfiora «i pericoli dell’impossibile e dell’innaturale», Ulrich azzarda l’ipotesi che il destino personale possa essere sostituito, in futuro, da eventi collettivi interpretabili mediante la scienza statistica. Agathe risponde ridendo: «Naturalmente capisco poco, ma non sarebbe meraviglioso se la statistica sciogliesse i nostri nodi? L’amore da un pezzo non ci riesce più!».