La Stampa, 2 dicembre 2022
Una notte tra i barboni torinesi
«Dormono per terra come panni stesi al sole, sembrano vestiti di disperazione, ti guardano passare con aria disgustata, quasi fossi tu ad aver sbagliato strada». Sono i versi di apertura di una canzone che qualcuno forse ricorderà ancora, una canzone che non ha mai trovato un’etichetta discografica, ma che, a cavallo tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, è passata di bocca in bocca, di chitarra in chitarra. Si intitola «Piazza Cordusio» e la nostra mente vola dunque al centro di Milano, ma se facciamo un viaggio nel tempo e nello spazio, se dagli ultimi decenni del secolo breve e dal cuore della «Capitale morale» ci spostiamo al cuore di Torino ai giorni nostri, lo spettacolo delle donne e degli uomini vestiti di disperazione non cambia. Torino, via Roma, serata fredda di inizio dicembre. Tra le 19 e le 19,30 i negozi chiudono, i gruppi di ragazzi che fino a poco prima percorrevano i portici in cerca di sneakers e felpe dei grandi marchi internazionali hanno abbandonato il centro per tornare nelle loro periferie, i turisti sono rientrati in albergo e tra poco usciranno per cena, disertando via Roma che sul fronte del cibo ha poco da offrire, gli ultimi pendolari si affrettano a grandi passi verso la stazione di Porta Nuova, con gli occhi che, ignorando quanto succede intorno, vedono già il miraggio di una cena in famiglia. È questa l’ora della metamorfosi, l’ora in cui la grande arteria centrale creata negli anni ‘30 per dotare anche Torino di un centro «razionalista» (ma, ovviamente, si legga «fascista») cambia pelle. Non più vetrina, non più centro commerciale a cielo aperto, non più passerella per griffe più o meno prestigiose, ma dormitorio en plein air. Quello che sorprende è la rapidità di questa trasformazione: in un attimo, spuntate non si sa da dove, decine e decine di persone sistemano il loro giaciglio davanti alle vetrine e si preparano a trascorrere la notte sdraiate sui cartoni, coperte da altri cartoni: il passeggiere che percorrerà, incauto, quella strada a tarda notte vedrà alzarsi e abbassarsi, ritmicamente, quei residui di scatole, quei cartoni animati dai corpi infreddoliti che vi stanno dentro. Ma nel tempo che notte non è ancora, prima che il sonno riduca al silenzio il popolo dei marciapiedi, i movimenti dei cartoni sono più complessi e sembrano obbedire ai comandi di un coreografo misterioso: trascinando i loro carrelli stracolmi, i clochard, i «senza fissa» («dimora» è un implicito superfluo per chi, come gli operatori dei servizi sociali, li nomina spesso) vanno al loro posto, ordinatamente, come se ognuno di loro fosse stato da sempre destinato a quei due metri quadri di marciapiede o come se, ipotesi meno romantica e più realistica, ci fosse un racket che assegna gli spazi riuscendo perfino a lucrare sulla povertà più assoluta. Illuminati dalle luci dei negozi alla moda, dai lampi dello sfarzo, gli esclusi dal grande banchetto della vita normale affondano la forchetta in qualche scatola di carne, comprata al discount con i soldi dell’elemosina, dividono il cibo con i loro cani, talvolta si parlano, ciascuno nella sua lingua, senza capirsi. Ed è inevitabile chiedersi se, dietro alla scelta di via Roma, del «salotto della città», vi sia semplicemente il desiderio di ripararsi sotto i portici, o se non vi sia un che di simbolico: estrema povertà ed estrema ricchezza disposte nel più ravvicinato dei confronti, separate da un vetro appena, come a indicare nella seconda la causa della prima. E negli anni si sono moltiplicate, si sono riprodotte a centinaia le foto di denuncia, fino a perdere di significato, fino a diventare stucchevoli, fino a farci pensare, troppo semplicisticamente, che se non esistessero quelle vetrine scintillanti non esisterebbero neppure quelli costretti a dormirci davanti. Certo, che la ragione della miseria di alcuni vada cercata nel consumismo dissennato di altri è una verità difficile da confutare, ma guai a cadere nella trappola di un meccanico e immediato rapporto di causa ed effetto. Non si arriva a dormire sotto i portici solo perché altri sono più ricchi, molto ricchi, troppo ricchi; il cammino che ti porta a vestirti di disperazione è più complesso e fatto di passaggi graduali. La prima tappa di questo cammino è la solitudine: prima ancora dei mezzi di sostentamento, si perdono le relazioni, si perde quell’insieme di affetti che ti aiuta a trovare una soluzione dignitosa anche nelle difficoltà peggiori.
«Son tutti poveracci che han perso una partita, dev’esserci un motivo se è qui la loro vita, chissà cosa sognavano quand’erano bambini»; siamo tornati alla canzone scritta da Silvano Maino (almeno questo dice la Rete, anche se la paternità di Piazza Cordusio è sempre stata ammantata di un alone di mistero) e questo viaggio nel passato ha il sapore un po’ dolciastro dei buoni sentimenti svenduti con facilità durante un campo scout o una serata radical chic. Eppure quelle parole colpiscono nel segno, perché non è possibile comprendere ciò che noi (noi «borghesi con la camicia bianca» dovremmo dire se volessimo proseguire con i versi di Maino, ma questo è davvero un po’ troppo) vediamo in via Roma la sera senza prendere in considerazione le storie che conducono fino a quei portici. Storie più scontate di immigrazione e di miseria atavica, ma anche storie di chi aveva un’esistenza come la nostra, semplice, sicura, ordinata, e, un passo dopo l’altro, perdendo il lavoro, perdendo la famiglia, perdendo la madre con cui si era divisa la vita fino all’età matura, perdendo il rispetto degli amici e persino il rispetto di sé, si è ritrovato a non avere più nulla. Sono questi coloro che spesso preferiscono il portico al dormitorio, che si sentono più protetti dalla strada che non dalle mura di una camerata condivisa con altri disperati che appaiono più minacciosi del freddo. Sono questi coloro che, non potendo portare i loro cani in dormitorio, scelgono «una vita da cani» piuttosto che una vita senza cani, piuttosto che una vita di solitudine totale. Le strutture di accoglienza sono importanti, ma non risolvono il problema di chi è stato trascinato sulla strada dalla complessità stessa dell’esistere. Chi dorme davanti a una vetrina non ha bisogno di un altro letto, ha bisogno di un’altra possibilità. —