Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  dicembre 02 Venerdì calendario

Le vere voci della storia


Bisognerebbe avere cento vite e milioni di ore, per poter godere del privilegio di avventurarsi nella cornucopia di storie, più di novemila, che si apre davanti ai tuoi occhi quando varchi l’ingresso dell’Archivio dei Diari di Pieve Santo Stefano, fondato da Saverio Tutino nel 1984 e ora diretto da Natalia Cangi. È, per me, uno dei luoghi più importanti di questo Paese e della conservazione della sua memoria, tanto più prezioso in un tempo sbadato.
Sfogliando quelle pagine, spesso scritte a mano, si viene trasportati nelle case degli esseri umani che hanno sentito il bisogno di fermare il tempo, metterlo su una pagina, consegnarlo al futuro. Emozione per i primi diari, quelli delle contadine, scritti su un lenzuolo e per la generosità con la quale medici condotti, maestre, braccianti, studenti, avvocati e commercianti hanno deciso di donare i propri ricordi perché potessero comporre un mosaico inedito di incalcolabile valore storiografico e civile.
Estraggo due testimonianze inedite di donne sui giorni del 1943.
Ines Ghiron, nata ad Alessandria nel 1917 da genitori ebrei, emigra a Parigi. Torna a Torino e viene colpita dalle leggi razziali: «Per la prima volta in vita mia mi sentii una “diversa” e fu una sensazione sgradevole, strana e umiliante». Sposa in segreto Pietro, uno dei capi di Giustizia e Libertà a Roma che fu arrestato e torturato e, solo per caso, sfuggì alle Fosse Ardeatine. Poi la liberazione: «Ero ritornata a Monteverde con un mio compagno e guardavo la scena dall’alto del Gianicolo, i carri armati tedeschi si erano oramai dileguati. Di colpo provai una gran paura: stavano ritornando, uno dietro all’altro. Lo dissi al mio amico che aveva un cannocchiale; li osservò meglio, poi gridò: “Quelli sono i carri armati americani!”. Erano le otto del mattino del 5 giugno».
Qui Ines descrive i giorni terribili delle Fosse Ardeatine e la figura di Donato Carretta, direttore di Regina Coeli.
«Un giorno, mentre ero in camera mia, vidi arrivare Rose-Mary in lacrime. Mi spaventai e chiesi che cosa era successo. Mi disse, fra i singhiozzi, che suo marito era andato nei giardini di Villa Doria Pamphili per studiare un po’ d’inglese, in attesa degli Alleati, come faceva di solito. Lei aveva appuntamento col marito all’uscita; ma il parco era stato circondato da tedeschi e “repubblichini” che avevano fatto una retata di “tutti gli uomini validi”, come dicevano allora. Lei aveva visto passare Ilia, tenuto sotto-braccio da un poliziotto; lui aveva fatto finta di non vederla e si erano allontanati, mentre lei era rimasta inchiodata sul posto. Poi aveva visto il marito liberarsi con uno strattone e cercare di fuggire, inseguito dal poliziotto, che l’aveva poi raggiunto e arrestato nuovamente, portandolo via.
Lui raccontò in seguito che aveva pregato quel poliziotto di non raccontare quel suo tentativo di fuga che l’avrebbe messo in cattiva luce; quello promise di tacere, ma fu poi la prima cosa che disse, arrivando alla polizia…
Intanto io mi ero procurata, tramite i nostri partigiani, delle carte false e dei soldi per permettergli di potere ritornare a Roma. Infatti lo spedirono sotto scorta a Firenze: aveva delle false carte d’identità, fornitegli dai tedeschi su sue indicazioni, in una tasca; mentre, nell’altra tasca, accuratamente nascosta, aveva le altre che gli avevo fornite io. Arrivato a destinazione gli raparono la testa e lo reclutarono. Lui riuscì a svignarsela e lo vedemmo poi arrivare a Roma, col cappello ficcato in testa fino alle orecchie, ma sano, salvo... e libero.
Purtroppo non fu lo stesso per Pietro. Pochi giorni dopo che era stato trasferito a Regina Coeli, il 23 marzo del 1944, ci fu l’attentato, organizzato dai comunisti contro una pattuglia di soldati tedeschi in via Rasella. I tedeschi annunciarono che, se gli attentatori non si fossero auto-denunciati, loro avrebbero ucciso per rappresaglia dieci italiani per ogni soldato tedesco ucciso: erano stati 34.
Pietro era immobile in un letto dell’infermeria del carcere quando un carceriere aprì la porta e disse forte:”Liberando!”. Pieno di speranze Pietro si alzò, si vestì in fretta e raggiunse il carceriere che lo aspettava nel corridoio; questi lo accompagnò nel cortile, dove alcune centinaia di altri prigionieri erano ammassati, in attesa di salire sui camion che li avrebbero trasportati alle Fosse Ardeatine. Pietro si avvicinò a Pilo Albertelli, che era anche lui nel cortile, e capirono che la loro scarcerazione era stata una beffa: ma era troppo tardi.
Quando i tedeschi vennero a Regina Coeli per prelevare gli ostaggi, il direttore del carcere, Carretta, fece notare, con una buona dose di coraggio, che dieci persone erano già state ammazzate dai tedeschi, subito dopo l’attentato, in via Rasella e che quindi lui avrebbe depennato dieci nomi dalla lista già pronta: tra quei dieci nomi c’era anche quello di Pietro, per pura combinazione. Vennero a prelevarlo nel cortile; lui vide il suo amico Pilo salire sul camion dove avrebbe dovuto andare anche lui e provò un senso di colpa per non essergli rimasto al fianco. Non lo rivide più.
(…) Carretta ne aveva salvate dieci, e pare avesse sempre fatto il possibile per proteggere e trattare umanamente i prigionieri del carcere. Ma, dopo la liberazione di Roma, per il solo fatto di essere stato il direttore di Regina Coeli, Carretta fu barbaramente linciato dalla folla inferocita.
Lo trascinarono fuori dalla prigione, lo buttarono nel Tevere; poi alcuni di loro salirono in una barca e lo colpirono a colpi di remi in testa finché affogò. Infine infilzarono il corpo alle sbarre delle finestre, a pianterreno della prigione. Queste manifestazioni di barbarie mi fecero orrore, tanto più in quel caso. Ma anche l’esposizione del corpo di Mussolini e della sua amante, Claretta Petacci, appesi a testa in giù, a Milano, dopo la fine della guerra, in Piazzale Loreto, mi disgustò profondamente. Quando Pietro ritornò in prigione, il medico gli raccomandò di rimettersi a letto nell’infermeria e di non muoversi più, per nessuna ragione».
Ester Marozzi, nata nel 1885 in provincia di Pavia, di professione maestra, ha raccontato sul suo diario i momenti più tragici dei giorni di fuoco del 1943.
«Lunedì mattina 26 luglio
Sono le 11,30 di notte, da circa un’ora sento a intervalli spari di mitragliatrici in lontananza. Che cosa sta accadendo?
La notte è scura, piove piano piano e a tratti solcano il cielo lampeggiamenti azzurri.
Sono angosciata, sento che gli avvenimenti volgono al peggio e ancora non so niente ma che cosa saranno questi spari? Le prima avvisaglie della guerra civile? Dio ci salvi dai suoi orrori.
Sono angosciata, sento che gli eventi volgono al peggio e ancora non so niente. Cosa saranno questi spari ? Le prime avvisaglie della guerra civile?
È ritornato il silenzio, non sparano più.
Le emozioni di questa memorabile giornata furono così violente che non trovo neppure parole per esprimerle, la mente è paralizzata, smarrita.
Ho dimenticato di mettere in nota l’allarme di oggi dalle 11.1/2 alle 13; nessuna incursione; tutti però pensarono che il segnale d’allarme fosse stato lanciato non già perché ci fossero apparecchi nemici alle viste ma per obbligare tutta la folla che si era riversata per le strade e s’abbandonava a clamorose dimostrazioni patriottiche a ritirarsi; perché non si riscaldasse troppo. Invece la folla non si curò dell’allarme e continuò a dar sfogo alla sua gioia gridando e abbracciando amici e conoscenti trovati per istrada. Incominciarono anche atti di violenza contro persone di fede fascista. A un certo Biagioni che abita qui in via Vitruvio, ladro emerito fattosi ricco a nostre spese, pezzo grosso del fascismo in ordine dinastico dal padre ai figli fu invasa la casa (il proprietario aveva già tagliato la corda e i mobili erano in gran parte stati messi al sicuro dai bombardamenti) furono gettati in istrada alcuni vasi e la divisa fascista che fu bruciata. Furono assaliti i gruppi fascisti [rionali] e saccheggiati un po’, non troppo, la folla non osa ancora metter con forza le unghie sui suoi tirannelli del giorno innanzi, non le par vero di poterlo fare; ieri non avrebbe fiatato, oggi è ricca di libertà e stenta a crederlo. Si può pensare che la folla sia vile perché prima di azzardarsi ha voluto vedere ben morto il mostro, ma si peccherebbe di eccessiva severità; si deve accusare di viltà chi non ha il coraggio di affrontare il martirio offrendosi alle fauci del mostro vivo?
Siamo indulgenti dunque con questa folla così pusillanime ieri e tanto ardita oggi e pensiamo che la sua reazione è la naturale conseguenza della compressione subita.
Ora sono le ore 0.20’, sento in lontananza anche qualche colpo di cannone di piccolo calibro. Sono inquieta.
Inizio di guerra civile
La giornata del 26 fu tutta di tripudio, ma non era ancora arrivata la sera che alla chiarità della gioia successe la cupa ombra dei rancori e degli odi personali, così incominciarono le prime vendette. I fascisti per 20 anni hanno commesso ogni sorta di canaglierie, soprusi, malversazioni atti malvagi a danno di cittadini, ruberie prepotenze e offese distribuite con larghezza a tutti coloro che non erano di evidente fede fascista: i migliori si limitarono alla camorra bonaria ma sanguisughesca, spillavano denari in tutte le occasioni e a quanti più potevano, con imposizioni perentorie ma con una certa educazione che in tali persone non era poco merito. La sera dunque del 26 la folla si recò al [“Covo”] in via Paolo da Cannobio, sacrario fascista perché di lì ebbe inizio l’ascesa di Mussolini, e ne fece saccheggio e distruzione; quindi si portò al bellissimo palazzo nuovo del giornale del Partito: Il Popolo d’Italia in piazza Cavour e pare che anche lì si sia abbandonata ad atti di giustizia collettiva. Gli spari delle mitragliatrici che udii la sera del 26 provenivano dal centro, non so se fossero i fascisti asserragliati negli edifici a reagire, o le truppe per disperdere i dimostranti. In una casa di corso Roma un giovane era andato a cercare il suo fascista che gli aveva fatto mandare il padre al confino, certamente fra i due saranno corse parole violente e vie di fatto, la conclusione fu che il fascista uccise con un colpo di rivoltella il figlio del confinato. Venuto il fatto subito a conoscenza della folla, questa si precipitò ad afferrare l’assassino che fuggì in istrada, fu raggiunto e bastonato a morte. Mia figlia che passava udì urli di belva e vide un bastone grosso rosso di sangue, non volle veder altro e scappò. Il giorno 27 si sperava che la città riacquistasse la calma ma non fu così, c’era inquietudine e fermento di folla perché dalle case di molti fascisti delle alte sfere avevano portato fuori ogni ben di Dio in generi alimentari; da una casa in via [Plinio] due sacchi di riso, un sacco di caffè due damigiane di olio, dicevano che da altre case era uscita roba da bastare per tre anni di guerra. La gente che crepa di fame era indignata.
12 settembre
Oggi mi trovavo sul piazzale della stazione Centrale. Osservai in fila e in attesa sulla più vasta aiuola ormai rimasta senza erba dopo le incursioni, una folla di soldati, mi avvicinai e vidi far guardia ai nostri soldati alcuni soldati tedeschi; mi guardai in giro; qualche carro armato puntato verso la stazione, molti autocarri, un continuo circolare di automobili mimetizzate con dentro un paio di ufficiali tedeschi. Non capii subito, ma poi la terribile verità mi sfolgorò nella mente come un fulmine e il cuore ebbe una commozione violenta. L’immensa schiera di soldati nostri era stata fatta prigioniera dai tedeschi lì, alla stazione man mano che arrivavano dalle varie città dell’Italia settentrionale.
Visi avviliti, stanchi, dolorosi. I nostri soldati! Vestiti meschini, laceri, sudici! Chi, chi aveva ridotto il nostro esercito in quello stato? 20 anni di fascismo.
Chi, chi gli aveva cancellato dall’anima la dignità e quella fierezza di sentirsi il custode del sacro corpo della Patria? 20 anni d’avvilimento e di servaggio.
Chi aveva aperto le porte di casa nostra a un nemico, per un abietto interesse di partito? Mussolini.
Chi aveva consegnato quel nostro giovane sangue al nemico? Mussolini.
Il nostro sfacelo, l’immane sventura che ci colpisce è il capolavoro di quel traditore e dei suoi complici. Non avremo mai odiato abbastanza il fascismo, i suoi capi e coloro che lo seguirono.
E così oggi 12 settembre 1943 l’Italia si trova occupata da un nemico che ha servito sino a ieri e che senza colpo ferire ma semplicemente per graziosa offerta di Mussolini, si è installato signore e padrone in tutte le nostre terre.
Col nemico tedesco sono piovuti giù anche i fascisti riparati in Germania i quali sperano di ripristinare un governo fascista. Stanno freschi!
Intanto noi siamo tagliati fuori dal resto dell’Italia; non funzionano i telefoni, il telegrafo, la radio nostrana, si può cogliere solamente Radio Londra e le altre stazioni straniere, ma di nascosto.
Dio ci venga in aiuto; aspettiamo i liberatori con impazienza tormentosa e che il resto del nostro avvilito esercito, ora che deve combattere per qualche cosa, ritrovi sé stesso e risollevi le sorti di questa povera, sventuratissima terra».