Corriere della Sera, 2 dicembre 2022
Sulla scrivania una montagna di sceneggiature, libri, liste di cast per serie future. Alle sue spalle una foto di Terence Hill in bicicletta e un’altra dove, con il padre, incontra papa Bergoglio
Sulla scrivania una montagna di sceneggiature, libri, liste di cast per serie future. Alle sue spalle una foto di Terence Hill in bicicletta e un’altra dove, con il padre, incontra papa Bergoglio. Mentre parliamo, il cellulare squilla in continuazione. Ma Luca Bernabei, amministratore delegato di Lux Vide, è un tipo educato e lo silenzia.
Luca, mi racconti di quella volta che accontentò Dustin Hoffman con un cachet... decisamente molto oneroso...
«Stavamo chiudendo il cast della prima stagione de I Medici. Una serie importante e difficile, che racconta l’Italia dell’eccellenza. Eravamo in trattativa con Hoffman, credevamo di essere arrivati a un risultato economico accettabile. Ma al momento di chiudere il contratto, abbiamo capito che si era verificato un misunderstanding: la cifra di cui stavamo parlando era per noi a pagamento dell’intera stagione, per lui di una sola puntata! Si trattava di una differenza importante, un numero a sei cifre, ma dovevamo concludere. Abbiamo deciso di dargli quello che chiedeva, rinunciando al guadagno del produttore. Quella notte mi sono tremati i polsi, credo di aver sognato mio padre che mi accusava di aver fatto fallire la sua società. Adesso, a posteriori, so di aver compiuto la scelta giusta. La serie è stata un successo, l’investimento ripagato».
Suo padre Ettore è stato uomo politico di spicco nella Democrazia cristiana, direttore generale della Rai e fondatore della Lux Vide. Lei porta un cognome importante: si è mai sentito un raccomandato di ferro?
«No, nel senso che mio padre non ha mai fatto sconti a nessuno, tantomeno ai suoi figli. Poco dopo esser entrato in Lux Vide mi ha mandato nel deserto a seguire la serie sulla Bibbia. Ci sono rimasto per sei anni. Una notte, mentre stavamo girando Augusto-il primo imperatore, con Peter O’Toole e Charlotte Rampling, mi chiamarono urgentemente: il set era andato a fuoco. Per non fermare la produzione, girammo per due settimane solo la notte, mentre gli operai ricostruivano h24. Io oscillavo tra set e cantiere, tornai a Roma che ero un cencio. Per mio padre era normale, aveva un’etica del lavoro altissima: maniacale nella cura del dettaglio, ma non perdeva mai la visione sui grandi scenari. Stargli accanto era complesso, ma mi ritengo fortunato per aver avuto un maestro come lui. Non gli ho mai visto fare una scelta per sé stesso».
Un benefattore?
«Non voglio dire questo, ma sicuramente i politici di un tempo, come lui, avevano il senso del bene comune: era un cattolico impegnato. Faceva una televisione che aveva l’obiettivo di unire le famiglie davanti allo schermo e, all’inizio, qualcuno faceva ironia sulle nostre fiction».
Non l’ha mai contestato?
«Ovviamente sì. Se i figli non contestassero i genitori il mondo si fermerebbe. Mio padre era un toscanaccio e certo non te le mandava a dire. Un giorno mi convocò nel suo ufficio arrabbiato per la violenza di alcune scene di Don Matteo: secondo lui, troppi morti. Osai dire che era un crime e la sua reazione fu peggiore, mi insultò furiosamente. Così ci inventammo il “coma fiction”, ossia un coma che dura lo spazio di una puntata, giusto il tempo di impedire alla vittima di rivelare il nome dell’assassino. Raccontare il Bene è un lavoro complesso che necessita innovazione».
Insomma, suo padre un tipo severo...
«Rigoroso e passionale. Le liti con lui erano epocali, mai sterili. Credo di aver in parte ereditato il suo carattere. Mia sorella Matilde è presidente della Lux e può succedere che abbiamo visioni differenti. Nelle discussioni lei è più diplomatica, ha un atteggiamento misurato, mentre io sono istintivo, quando mi arrabbio vado diretto al punto. Per fortuna, su invito di Matilde, abbiamo fatto un patto: a fine giornata dobbiamo fare pace, tornare a casa sereni».
Donare il suo midollo all’altra sua sorella Paola, malata di leucemia, cosa ha significato per lei?
«Un’esperienza fondamentale. Avevo 18 anni, stavo frequentando l’ultimo anno di liceo e c’era in vista l’esame di maturità. Andai negli Stati Uniti, restai là per tre mesi proprio per fare la delicata operazione, che si risolse positivamente. Quando tornai in Italia, mio padre fu perentorio: ora mettiti a studiare e devi prendere 60. Sono riuscito a prendere 56... Si accontentò».
Da ragazzo avrà frequentato i set...
«Anche da bambino, se è per questo, quando non esisteva ancora la Lux. Ebbi il privilegio di poter partecipare a una festa di Carnevale con il vero abito del Pinocchio di Comencini. Siccome però era fatto di cartone, passai tutto il tempo immobile, per il timore di romperlo... Poi, negli anni, ricordo le chiacchierate tra mio padre e Franco Zeffirelli quando lo convinse a firmare la regia del Gesù di Nazareth. E le cene, nella nostra casa di campagna, con Federico Fellini e Giulietta Masina: papà li invitava sempre quando veniva ucciso il maiale, perché il maestro era un buongustaio. Intorno a quella tavola semplice, tra salsicce e spiedini, il grande regista ci raccontava i suoi sogni, le sue visioni...».
Il padre Ettore ha avuto 8 figli. Il figlio Luca, ne ha avuti 6. Siete molto prolifici, una tradizione familiare?
«Ai suoi tempi, erano abbastanza frequenti le famiglie numerose. Io, in realtà, non me l’aspettavo, perché quando ho sposato Paola (Lucantoni) lei di figli non ne voleva avere...».
L’abito di Pinocchio
Da bambino andai
a una festa di Carnevale con il vero abito
del «Pinocchio»
di Comencini. Era di cartone, rimasi immobile
per paura di romperlo
E allora?
«Allora poi sono arrivati e ovviamente li abbiamo felicemente accolti ed è stata proprio Paola a insegnarmi come fare il padre».
Cioè?
«Io provengo da una famiglia d’altri tempi. Mia madre Elisa, pur essendosi laureata, si è dedicata interamente al ruolo di moglie e di madre. Mio padre, quando rientrava dal lavoro, non si prodigava in faccende domestiche. Paola invece lavora, è professoressa universitaria, quindi i primi tempi, quando tornavo a casa e avrei voluto rilassarmi, magari fumandomi una sigaretta in santa pace, mi affidava Allegra, la nostra primogenita: da quel momento fino a quando la mettevo a letto, era tutta mia. Ho dovuto imparare a cambiare i pannolini, a farla mangiare... Ho imparato ad avere un rapporto fisico con i figli, la tenerezza dell’abbraccio che, avendo avuto un genitore austero, conoscevo poco».
E i suoi figli vogliono seguire le sue orme in campo produttivo, così come lei ha seguito quelle di suo padre?
«Allegra, 25 anni, Elisa, 23 anni, ed Ettore 21, vogliono lavorare con me, e stanno studiando per questo. Olivia, 19, ora fa la radio. Ilaria, che ha solo 14 anni, sogna di fare l’attrice e su questo sono più cauto. Facendo il produttore so bene che il mestiere dell’attore è difficile, delicato, ti espone al giudizio degli altri che, a volte, può far male. Pietro ha 9 anni, è ancora presto!».
E lei, di attori, ne ha conosciuti parecchi: italiani e internazionali. Quelli più capricciosi?
«Quando Shirley MacLaine accettò di interpretare la nostra Coco Chanel, la prima cosa che pretese fu di avere un cane per farle compagnia. Non solo. Siccome ci facemmo realizzare dall’atelier di Parigi degli abiti che erano repliche fedeli di quelli indossati dalla celebre stilista, al termine delle riprese l’attrice voleva tenerseli. Noi glieli avremmo volentieri regalati, ma la maison li rivolle indietro per distruggerli, perché erano dei “falsi” Chanel. L’attrice si arrabbiò moltissimo e allora, per accontentarla, le regalammo una borsa Chanel. Ai tempi non sapevo quanto costano. Ora sì (ride). Aggiungo che nella maison io riuscii a fare una figuraccia...».
Quale?
«La prima volta che misi piede nello storico edificio parigino a Rue Cambon, per prendere accordi, venni accolto dalla responsabile del marketing, una signora elegantissima, che mi portò in giro, mostrandomi tutti gli abiti dell’haute couture: vere opere d’arte. E io le feci ingenuamente l’unica domanda che non avrei dovuto fare: perché non vedo in giro macchine da cucire? Lei, con disprezzo, rispose: in tutto il palazzo non ne esiste nemmeno una, perché qui si fa tutto a mano! Ho temuto che non mi permettessero più di realizzare la serie».
Elena Sofia Ricci, invece, l’avete addirittura chiusa in un convento di clausura, per prepararla a interpretare la suora in «Che Dio ci aiuti»...
«Fu Elena a chiederlo. Essendo un’attrice seria, voleva capire come rendere il suo personaggio vero. Ma quando ho visto le porte del convento di clausura chiudersi dietro di lei, mi sono preoccupato: aveva uno sguardo sinceramente spaventato. Temevo che, dopo quell’esperienza, ci avrebbe detto di no. Invece, è diventata amica e compagnona con tutte le monache, una delle quali, fra l’altro, girava dentro al monastero sui pattini a rotelle...».
State per celebrare i 30 anni della Lux. Quali gli aspetti positivi e quelli negativi nella vostra gestione?
«Positivo, l’aver mantenuto una coerenza con la linea editoriale del fondatore, che amava ripetere: il mondo è pieno di acquedotti, ovvero di network, e noi dobbiamo essere portatori di acqua pulita. Ma mantenere questa coerenza, essendo innovativi, non è facile. Sicuramente abbiamo perso qualche occasione. Il fatto è che, come diceva il filosofo Karl Popper, per fare questo mestiere sarebbe necessario avere la patente».
La patente?
«Sì! Nessuno ti fa l’esame per realizzare un prodotto che raggiunge milioni di persone, che entra nella loro fantasia, nei loro sentimenti. E invece abbiamo una grossa responsabilità».
Dustin Hoffman
Stabilimmo il cachet ma la cifra che per noi era il pagamento dell’intera fiction, lui la considerava valida per una puntata soltanto... alla fine lo accontentammo
Se non fosse stato il figlio di... con una strada tracciata, che mestiere avrebbe desiderato fare?
«Sono amico di tanti cuochi e chef... francamente a volte ho pensato che non mi sarebbe dispiaciuto fare il ristoratore».