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 2022  dicembre 02 Venerdì calendario

Il «Tocatì» di Verona

«Poco, gnente e fantasia». Partirono così, vent’anni fa, con lo stesso spirito che avrebbe poi animato la bellissima mostra sui giochi d’una volta del culture delle tradizioni venete Gianluigi Secco, gli amici che nel 2002, seduti a un tavolo dell’«Osteria a le Petarine», a Verona, s’inventarono il «Tocatì». E che mai avrebbero immaginato che due decenni dopo sarebbero stati premiati dall’Unesco, per il loro «Festival internazionale dei giochi in strada», come modello di «buona pratica» culturale.
Quella sera a cena c’erano Paolo Avigo (detto «Paolo pelle» perché aveva un laboratorio di borse) e otto amici. Parlavano tra di loro, si immalinconivano nel ricordo di quando erano bambini e giocavano per le strade ignari che i figli e nipotini di oggi sarebbero stati travolti da PlayStation e social fino a diventarne schiavi, e decisero: bisognava rilanciare almeno uno dei passatempi più antichi: quello che a Verona è «lo s-cianco». Cioè il gioco della Lippa, chiamato qua e là per il mondo in mille modi diversi ma le cui regole sono le stesse del XIII secolo a.C. nell’Antico Egitto.
Pensavano che all’appuntamento convocato per il 6 ottobre col passaparola (manco un manifesto) nel cortile del Mercato Vecchio vicino a piazza delle Erbe, venissero pochi nostalgici. Arrivarono a centinaia. Al punto che l’anno dopo ci riprovarono. Con l’aggiunta di altri giochi antichi un tempo diffusi in tutta Italia e quel nome che si sarebbe imposto all’istante: «Tocatì». Tocca a te. Da allora, con l’appoggio via via di sindaci di centro-sinistra come Paolo Zanotto o Damiano Tommasi e di destra come Flavio Tosi e Federico Sboarina, tutti per una volta concordi (evviva!) nel sostenere l’iniziativa senza appiccicarci sopra etichette partitiche, i visitatori e i giochi si sono moltiplicati fino a coinvolgere ogni anno 250.000 persone e ad allargare la lista di ospiti italiani e stranieri al punto di dare spazio a giochi così lontani da noi da lasciare stupefatti.
Qualche esempio? Il tradizionale Salto del Pastor Canario che consiste nell’uso acrobatico di un’asta dai due ai quattro metri che i pastori delle Canarie «usano da tempi lontanissimi per aiutarsi ad avanzare in modo rapido e sicuro sul territorio diseguale e vulcanico. Il pastore non solo utilizza l’asta per saltare da un lato all’altro di burroni e fossati, ma anche per aiutarsi a superare i diversi ostacoli del terreno, per catapultarsi in salita o, fissando l’asta in un punto sicuro e scivolando su essa, per scendere lungo le rupi a strapiombo». O il Caber Toss immancabile agli Scottish Highland Games nei quali muscolosi boscaioli si sfidano in quello che per secoli è stato uno dei compiti più complicati del mestiere: raccogliere un tronco d’albero, sollevarlo diritto verso il cielo e scaraventarlo in aria dopo quattro passi di rincorsa facendo sì che cada diritto in avanti dopo una capriola. O ancora l’Ulama de Cadera, erede nelle zone di Escuinapa e Mazatlán, nel Messico che si affaccia sull’oceano Pacifico all’altezza di Durango, del gioco azteco chiamato Ullamaliztli: dieci giocatori divisi in due squadre si scontrano inseguendo un pallone di quattro chili (nove volte più della palla usata ai mondiali in Qatar) che possono colpire solo con l’anca. Per non dire di un’altra specialità messicana: la Pelota P’urépecha che si gioca dai tempi più lontani nel Michoacán, la regione a ovest di Mexico Ciudad. In questo caso, quando i giocatori sono pronti e impugnano robuste mazze, la sfera inzuppata di liquido infiammabile viene incendiata. I video su YouTube dicono tutto: la palla infuocata e pericolosamente contesa da esagitate ombre nere è uno spettacolo che esce dritto dritto dal passato. Ma come dimenticare la Kispetia, l’antichissimo combattimento greco tra atleti coperti solo da un paio di pantaloni di pelle neri scivolosissimi perché totalmente unti d’olio così che la presa sull’avversario richiedesse sforzi supplementari? Praticata ancora nella Tracia e in Macedonia ma diffusa dal Mediterraneo all’Uzbekistan, l’antica lotta dipinta su tanti vasi greci ha il suo santuario a Kirkpinar, in Turchia, dove ogni anno un migliaio di lottatori si ritrovano per un torneo di tre giorni. Un appuntamento fisso dal 1362. Per capirci: 130 anni prima che Cristoforo Colombo scoprisse l’America.
Non sono però solo i giochi antichi più strani e scenografici del pianeta via via portati in scena ad essere il vanto del Tocatì. E forse neppure soltanto il grande merito di avere fatto conoscere ai veronesi le tradizioni storiche ludiche e culturali di tante contrade italiane meno note. Come Irsina, provincia di Matera, dove ogni anno, gli abitanti si ammucchiano l’uno sull’altro, con una perizia pari solo allo sprezzo del pericolo, per costruire insieme altissime «torri umane». O Schieti, antico castello tra Pesaro, Urbino e il Montefeltro dove ogni anno si ripete il Palio dei Trampoli, un tempo pare usati dai sacerdoti per elevarsi verso il cielo e dai pastori per sorvegliare il gregge dall’alto. O Arpino, in provincia di Frosinone, dove si svolge la corsa con la cannata e le donne sono chiamate a percorrere 280 metri reggendo sulla testa un’anfora piena d’acqua.
Tutte cose preziose per recuperare tanti fili comuni. Come spiega la motivazione del premio, votata dai rappresentanti di vari paesi riuniti a Rabat, ciò che fa entrare il Tocatì nel «registro delle buone pratiche di salvaguardia del patrimonio immateriale Unesco» è aver fatto nascere un programma pilota «basato sulla comunità e su più attori che fornisce un modello per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale a livello regionale, subregionale e internazionale». Un progetto che unisce. «Per un futuro ricco della diversità di culture e tradizioni, patrimonio vivente dell’Umanità».