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 2022  dicembre 01 Giovedì calendario

Intervista a Giorgio Parisi

Giorgio Parisi ha imparato a leggere prima i numeri che le lettere dell’alfabeto: «A 3 anni - così mi raccontava mia madre - riconoscevo il numero del tram mentre era ancora lontano. Ecco, arriva il 53, arriva il 24». Il nuovo libro del premio Nobel per la fisica 2021, scritto con Piergiorgio Paterlini, è un ritratto a tutto tondo dello scienziato romano. Dai tratti distintivi come la proverbiale r moscia - «Sbaglio a scriverla, non solo a pronunciarla» - alla passione per la scienza, e la fantascienza - «fin da bambino ho letto moltissimo Verne» - fino ai grandi successi, alle scoperte avvenute, spesso, per caso.
Ci sono aneddoti divertentissimi. Ci racconta il discorso dell’ascensore?
«Oggi si fanno simulazioni dell’atmosfera estremamente dettagliate. Ma una volta ci si chiedeva come mai una radiazione molto piccola della quantità di luce - l’uno per mille ogni centomila anni - possa portare a glaciazioni. Cioè a una variazione di dieci gradi, e non di uno soltanto come ci si aspetterebbe, facendo un rapido conto su un foglietto di carta».
Già, com’è possibile?
«Roberto Benzi mi aveva invitato a un seminario di un altro fisico, Alfonso Sutera: ne abbiamo discusso, ero arrivato a un’ipotesi di soluzione. Ma era il 1979, le mail non esistevano e quindi bisognava scriversi una lettera o incontrarsi. Dopo qualche settimana, incontro Benzi e gli dico appena uscito dall’ascensore: le glaciazioni avvengono perché i tempi di tunnel sono influenzati dall’energia solare».
Vale a dire?
«Anche con piccole perturbazioni, il mutamento poteva diventare enorme. La cosa interessante è che io mi ero completamente dimenticato di questo episodio, finché qualche tempo fa ho sentito Benzi che parlava del discorso dell’ascensore. Si riferiva a quando, molti anni prima, gli avevo dato quell’illuminazione».
Come sono riusciti a provare che la teoria era giusta?
«Benzi e Angelo Vulpiani si erano messi a fare le simulazioni di notte. Una volta - erano gli anni di piombo - li volevano arrestare perché credevano che fossero terroristi».
Lei aiutò anche un collega cinese scrivendo una formula sul tovagliolo della mensa universitaria, è così?
«Sì, e poi lui me la fece copiare su un taccuino. Pensi che la conserva ancora. Zhang Yicheng venne a trovarmi ai laboratori dell’Istituto nazionale di fisica nucleare, a Frascati. Abbiamo cominciato a parlare di un problema, così ho buttato giù quattro paginette di calcoli. In seguito ci hanno lavorato molto, ed è diventata la famosa equazione KPZ, dove K sta per Kardar, P per Parisi e Z per Zhang. È una cosa che è diventata molto importante e che spiega diversi fenomeni: come brucia una carta di sigaretta, come si allarga una macchia di caffè, come cresce una colonia di batteri...»
Lei racconta nel libro anche della sua passione per le danze greche. Ce ne parla?
«Muoversi a ritmo ti obbliga a sentire molto più profondamente la musica. In Grecia ci sono migliaia di danze differenti, localizzate. Ce n’è una molto carina che viene ballata in un solo paese della Tessaglia, solo il martedì di Pasqua e neppure tutti gli anni. Un’altra viene ballata in Macedonia, il giorno dello Spirito Santo».
Lei balla anche il Forró brasiliano, vero?
«Quello è un ballo di coppia e bisogna stare più attenti a non pestare i piedi. La bellezza è che nella danza le equazioni non servono».
Lei però è riuscito a decodificare un altro tipo di danza, il volo degli storni. Come ha fatto?
«Sì, in effetti sembra che danzino, ma spesso fanno questi movimenti con uno scopo ben preciso. Rappresentano una specie di bandiera che viene agitata sul posto in cui gli storni vanno a dormire. Sono animali freddolosi, cercano alberi con foglie larghe, che fermino il vento. Quando c’è la tramontana, d’inverno, se ne trovano tanti stecchiti. Non trovano molto da mangiare, quando sono finite le olive di cui sono ghiotti. Quando c’è un bel posto per mangiare, si agitano per indicarlo».
Il suo studio sugli storni smentisce che la scienza sia una materia arida, non trova?
«Questo è uno dei motivi per cui ho scritto questo libro. Ci sono ottimi testi nelle scuole, ma non sempre riescono ad appassionare, come Piero Angela in televisione».
Roland Barthes diceva che il sapere deve avere sapore. Che ne pensa?
«Ero a Parigi quando il grande semiologo insegnava all’Institut de France: non sono mai riuscito a entrare, perché c’era una folla enorme. Pensi che molti andavano alla lezione precedente, di assirologia, per prendere posto. Peccato che sia morto prematuramente, investito per strada».