Il Messaggero, 1 dicembre 2022
In morte di Davide Rebellin
Letteralmente, Davide Rebellin viveva in bicicletta. La passione e l’ossessione. Per tragico contrappasso, in bicicletta ha trovato la morte, su una strada che conosceva da sempre, a 10 chilometri da dove era nato. Atrocissimo destino per uno che calcolava con relativa approssimazione, da uomo preciso e rigoroso qual era, di aver pedalato per almeno un milione di chilometri, tra gare e allenamenti, e per 16 squadre diverse in carriera. Infatti è stato il professionista più longevo nella storia del ciclismo: trent’anni a mulinare le pedivelle e ad ascoltare il gracchio armonioso della catena che cambia binario sul deragliatore, suono sublime per chi va in bici, dal 1992 al 16 ottobre scorso, quando ha chiuso sui ciottoli di casa sua, a 51 anni compiuti, alla Veneto Classic. Longevità da record, grazie alle doti naturali ma anche a un regime alimentare che Davide curava con attenzione, negli ultimi anni era diventato un vegetariano colto, che sapeva cosa mangiava e perché: iniziava la giornata con del corallo di Okinawa sciolto in mezzo litro d’acqua, si nutriva di riso, legumi, minestroni, frutta fresca e secca, olio di cocco, quinoa; cenava alle sei del pomeriggio, seguendo la lezione della civiltà contadina, e andava a letto alle 9.È stato un campione delle corse in linea, ne ha vinte 67 in carriera, perché conosceva l’arte del finisseur: controllo strategico della gara, amministrazione delle energie e conoscenza minuziosa delle trappole del tracciato, il tutto per preparare la stoccata negli ultimi chilometri, o con uno scatto negli ultimi 500 metri, per andarsi a prendere la vittoria fregando sull’anticipo gli sprinter o gli scalatori. Così aveva vinto diverse classiche: tre volte la Freccia Vallone, una Amstel Gold Race, una Clasica di San Sebastian e una Liegi-Bastogne-Liegi, dove arrivò anche quattro volte sul podio. Non era uomo da corse a tappe, lì si limitava ad assistere i suoi capitani (tra cui Mario Cipollini), e nel suo palmarès c’è solo una vittoria di tappa al Giro d’Italia. Ha partecipato a nove campionati del mondo con la nazionale azzurra, massimo risultato un quarto posto.Poi, come nella vita di ogni uomo e di ogni atleta, c’è un punto di svolta, che dà un senso al prima e soprattutto al dopo.LA MEDAGLIA REVOCATAQuello di Rebellin è la medaglia d’argento conquistata alle Olimpiadi di Pechino, nel 2008, in una volata persa per un nonnulla contro lo spagnolo Sanchez. Era il giorno del 37esimo compleanno di Davide, sembrava proprio la ciliegina di una carriera. Ma 8 mesi dopo la medaglia gli viene revocata perché nel suo sangue (congelato) viene riscontrata la positività al Cera, che era una versione aggiornata dell’Epo. Rebellin ha sempre contestato la decisione, sostenendo che il sangue si fosse ormai degradato a molti mesi di distanza, ma la giustizia sportiva fu inflessibile: medaglia ritirata per doping (la prima nella storia dello sport olimpico italiano) e due anni di squalifica, anche se in sede penale, nel 2015, Rebellin fu assolto per insufficienza di prove. Quella è stata la svolta della sua vita, non solo professionale, perché poco dopo Davide si separa dalla moglie, dopo una storia iniziata da bambini. Negli anni a seguire, a fine squalifica, per reazione alla sventura e per coerenza con se stesso, con dentro un filo di disperazione e vagonate di amarezza, l’uomo ha continuato tenacemente a rimanere attaccato al meraviglioso oggetto a due ruote che è stato la sua vita, il suo pane e il suo strumento di tortura, e infine è stato la sua morte. Ha corso sempre, via via in squadre sempre più ai margini del grande ciclismo e dei circuiti principali, accettando ingaggi da team di Croazia, Polonia, Kuwait, Algeria. Negli ultimi anni, dispacci di poche righe riportavano vittorie di Rebellin al Giro dell’Iran, magari in una tappa che toccava l’Azerbaigian, o al Tour di Ijen, nell’isola di Giava. L’ultima vittoria accertata è una terza tappa al giro di Algeria, quattro anni fa.Per Davide il ciclismo era ciclismo ovunque, l’importante era portare avanti la propria passione, e rimanere in gruppo con dignità, senza che nessuno gli potesse dare del vecchio. Ci è riuscito in pieno, fin quando ha messo il piede a terra lo scorso ottobre, tra gli applausi. Si preparava a una strana nuova vita, non più da ciclista professionista. Ma ieri era ancora lì a pedalare, perché non poteva fare altro: le passioni e le ossessioni spesso coincidono. E a volte se ne muore, addirittura.