la Repubblica, 1 dicembre 2022
La jihad vira su Asia e Africa
L’annuncio della morte del capo dello Stato islamico, Abu al Hassan al Hashimi al Quraishi, dopo soltanto otto mesi, è un ennesimo segnale della crisi del gruppo terroristico nella sua terra d’origine. Il predecessore di Abu al Hassan, Abu Ibrahim, era durato ventotto mesi. Prima di lui Abu Bakr al Baghdadi – il capo che per primo si era proclamato Califfo dal pulpito della Grande moschea al Nuri di Mosul, in Iraq – era riuscito a resistere nove anni e questo è un segnale di quanto le condizioni stiano cambiando.
Lo Stato islamico in Iraq e in Siria non ha più un territorio suo dal 2019, ha meno uomini,meno soldi e attrae meno volontari. Anche l’ideologia non è più in grado di proiettare sogni di potenza davanti agli occhi dei seguaci nelle città europee come dieci anni fa. E questa crisi si riflette sulla tenuta interna. Un tempo c’era una rete di sicurezza gestita in modo professionale per proteggere il leader supremo dalla caccia dei migliori servizi segreti del mondo, ora non è più così efficiente e la vita dei nuovi capi si accorcia.
Così si assiste a un paradosso territoriale. La fazione più prestigiosa e importante, che sceglie il leader supremo, è sempre quella irachena-siriana e spesso gli esperti la indicano come “Stato islamico centrale”. Del resto non potrebbe essere altrimenti, il capo del gruppo dev’essere arabo perché deve discendere dal Profeta Maometto, è un requisito essenziale per la carica.
Le fazioni più attive sono però quelle in zone di operazioni lontane, soprattutto nell’Africa occidentale e in Afghanistan. Se si va a dare un’occhiata al bollettino settimanale dello Stato islamico, che si chiama al Nabaed è pubblicato in formato pdf ogni giovedì sera, si vede che nell’ultima pagina c’è l’elenco delle operazioni diviso fra le varie regioni del mondo e che spesso il primato va alle regioni dell’Africa o all’Af-Pak, la sigla che riunisce Afghanistan e Pakistan, e non più al Medio Oriente.
A scorrere i canali della propaganda del gruppo, sempre molto ricchi di foto e di video, si potrebbe credere di vedere le operazioni di una qualche guerriglia africana degli anni Settanta. Le spore hanno attecchitobene perché hanno trovato condizioni che non trovano più nel punto d’origine: caos, forze di sicurezza deboli, assenza di sostegno internazionale, facilità di arruolamento, basso costo delle operazioni.
Da qualche parte fra il Mali e il Niger e il Congo, grandi gruppi di uomini armati lanciano operazioni contro gli eserciti locali, non più appoggiati dai militari europei, in nome dello Stato islamico, e prendono sempre di più il controllo degli affari locali – perché la guerriglia necessita di finanziamenti.
Poi spediscono il materiale video grezzo girato durante i loro raid alle cellule del dipartimento media nascoste in qualche appartamento in Turchia, che si occupano di ripulire e montare i filmati. Le altre divisioni sparpagliate nel mondo, dalle Filippine fino a Kabul, fanno lo stesso. E la leadership intanto cerca di sopravvivere negli spazi residui che riesce a mantenere in Siria e Iraq. Così, mentre il mondo è assorbito da altro, la fazione più pericolosa del terrorismo islamista si adatta a sopravvivere e sogna di tornare ai livelli di dieci anni fa.