Corriere della Sera, 1 dicembre 2022
Trentino, l’esodo forzato
Sarà il romanzo su un esodo forzato di 110 mila persone, residenti dal Tonale fino a Trieste, del quale non si trova traccia nei libri e del quale nessuno ha mai parlato. Ma a volte in famiglia ci sono nonni che ricordano e che raccontano, anche se non sempre volentieri. È quello che è capitato a Dario Colombo, giornalista sportivo con la passione per la storia e in particolare per la Prima guerra mondiale: «Carmela, la mia nonna materna, era tra quella gente cacciata a forza dagli austriaci e confinata attorno a Praga, in Moravia o in Bassa Austria. Aveva 15 anni quando partì. Parlava raramente di quanto aveva vissuto, ma anche quel poco che ha narrato mi ha fornito lo spunto, anni e anni dopo, per togliere dall’oblio una vicenda commovente, nella quale fa addirittura capolino Lenin: lo dovevo a lei e alla popolazione della “mia” Val di Ledro, la zona più colpita dal trasferimento coatto».
In realtà è un tributo a tutti quelli che abitavano sul confine dell’allora impero austroungarico e che finirono deportati. Un destino brutale, con un seguito perfino peggiore, appunto nel segno della dimenticanza: «I risvolti civili della Grande Guerra hanno sempre contato zero. Soprattutto in Italia: nonostante si fosse intervenuti per liberare i fratelli di Trento e Trieste, a conflitto terminato costoro furono considerati nemici perché avevano combattuto per l’Austria. Il fascismo fece poi togliere dai cimiteri le lapidi dei caduti: non erano morti per l’Italia».
Il romanzo, intitolato Boemia e presto edito da Minerva, prima di tutto vuole dunque rendere giustizia. «Ho attinto a storie vere, i personaggi sono reali, salvo avere i nomi cambiati. Tutti tranne quelli dei due principali: una maestra e un sacerdote». Ecco allora lo scenario. Il 20 maggio 1915, quattro giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, queste popolazioni videro attaccato sulla porta delle chiese l’editto tassativo degli austriaci: entro 12 ore dovevano radunarsi alla stazione ferroviaria più vicina con una coperta, un cucchiaio e viveri per pochi giorni, lasciando libere le case e abbandonando il bestiame.
Perché le chiese? Perché i sacerdoti erano considerati interlocutori attendibili, oltre ad essere tra i pochi maschi rimasti. «Quelle zone – spiega Colombo – erano austriache e l’Austria era entrata nel conflitto nel 1914: quindi gli uomini erano sul fronte russo. Non solo: dopo quattro mesi, complici anche dettagli insospettabili come l’utilizzo di uniformi coloratissime e troppo visibili, l’esercito era già stato decimato ed erano stati richiamati perfino i cinquantenni. Ma che cosa potevano temere da donne, bambini e qualche vecchio? Semplice: questa gente, pur sotto il governo austriaco, era di lingua italiana. Quindi si ipotizzava che nella guerra avrebbe aiutato l’Italia».
L’evacuazione era già pronta dal 1912 – i sospetti verso di noi duravano da un po’ – e si pensava che sarebbe durata non più di tre mesi, tanta era la sicurezza di vincere. Ma non andò così. «Era sbagliata pure la valutazione sulla collaborazione. Come spiegò Alcide De Gasperi, all’epoca deputato austriaco, al ministro Sydney Sonnino poche settimane prima della guerra, in un eventuale referendum post bellico il 90 per cento della popolazione di quei territori avrebbe votato per l’Austria».
I treni dell’esodo partirono e tutte queste persone – 70 mila dal solo Trentino – finirono ammassate nei carri bestiame (come i deportati dei nazisti) senza conoscere la destinazione. Cinque giorni di viaggio e uno choc: tutto era nuovo, luoghi, clima, usanze, lingua. «E quelli del posto erano ostili, la guerra c’era anche per loro e quindi protestavano». La prima accoglienza avvenne nei magazzini delle stazioni: paglia sui pavimenti per dormire, una stufa enorme per cucinare. Poi, pian piano, arrivarono le sistemazioni nelle case. Ma i problemi non erano risolti. «Qui emerge un aspetto decisivo per il romanzo: le donne cominciarono a scrivere alle autorità chiedendo di tutto: legna, farina, stoffe per i vestiti invernali».
Le loro missive sono state una prima traccia da seguire, quindi il lavoro di ricerca, durato oltre tre anni, si è allargato a cartoline e lettere. «Ne ho lette a migliaia: i dialoghi nel romanzo sono tratti spesso da quelle corrispondenze». Gli aneddoti sono innumerevoli, legati alla voglia di normalità («la comunità fece regolarmente cominciare, a settembre, l’anno scolastico dei bambini. Insegnamento in italiano, ma i libri erano in boemo: così furono i più piccoli a imparare per primi la lingua»), a trovate ingegnose («prepararono una tabella-dizionario dei vocaboli essenziali, con indicazioni per la pronuncia»), a dettagli struggenti («uno degli uomini catturati in Russia tenne memoria della prigionia, scrivendo in rima su un diario in cirillico»), a un episodio che ci conduce a una «Schindler’s list» ante litteram. Di nuovo Colombo: «Le fucine della Val di Ledro fornivano all’esercito austriaco i chiodi per gli scarponi. Ma senza gli uomini non potevano funzionare. Così nel 1916, esaurite le scorte, le autorità chiesero al sacerdote di cui parlo di elencare i nomi degli operai da far rientrare dal fronte. Lui si consultò con la maestra e scattò l’idea: indichiamo tutti i maschi. Gli austriaci si insospettirono: così tanti? E loro: se volete tanti chiodi, avete bisogno di tanta gente. L’operazione andò a buon fine: gli austriaci pretesero da ciascun lavoratore mille chiodi al giorno, quelli bravi fecero anche la parte di quelli meno efficienti».
L’altra figura cardinale è la maestra, Emma nella realtà, Cecilia nel romanzo. «La sua vita si intreccia con una storia d’amore di cui ho le prove. A dire il vero non è sua, ma del nonno e della nonna di miei amici: loro mi hanno passato la documentazione. Alla maestra faccio fare la stessa parte della nonna, ovvero colei che rispondeva alle cartoline che il fidanzato le scriveva ogni giorno. La corrispondenza all’improvviso si interruppe. Pessimo segnale, confermato da un dispaccio in tedesco: il povero Cesare era deceduto. Ecco, ho tutte le lettere dei due».
C’è poi lo straordinario aneddoto di Lenin, arrivato dalla vicina Svizzera nel distretto di Pribram, dove incontra un gruppo di giovani operaie trentine che gli offrono il pranzo nella trattoria U Nuvarilu, gli pagano il biglietto del treno da Pribram a Ceske Budejovice, si iscrivono al partito socialista e si fanno ritrarre con lui in una foto conservata per anni negli archivi del vicino comune di Novy Knin. Scoppia il finimondo: il francescano Ottavio Fabbro affigge sulla porta della chiesa la scomunica: «… per aver aderito alla setta infernale», sanzione che le autorità ecclesiastiche fecero in seguito revocare.
A guerra finita l’esodo terminò, ma il ritorno a casa non fu meno difficile della partenza. Oltre alle devastazioni belliche, alle razzie e alla necessità di riappropriarsi di un passato, ci furono le brutte sorprese: «Era prevista la parità di cambio tra corona e lira, però come controvalore fu concesso solo il 60 per cento. Al ricordo, nonna Carmela commentava così: “Questi qui sono gli italiani”». Quando infine nel 1929 il mondo fu travolto dalla crisi economica, nel territorio trentino avvenne un altro sradicamento: molti emigrarono negli Usa e in Sud America, altri andarono a lavorare nelle fabbriche milanesi o alla Fiat a Torino. Altre storie da raccontare, promette Dario Colombo: Boemia avrà un sequel, anzi due.