Corriere della Sera, 1 dicembre 2022
Intervista a Francesca Archibugi
«Ero felicemente pronta a fare la cineasta sfortunata, mi sembrava già una vita stupenda, la marginalità non mi dispiaceva. Poi Mignon è partita ha incassato tantissimo, anche se io pensavo fosse un film minore e improvvisamente mi sono ritrovata che tutti mi cercavano». Con la popolarità Francesca Archibugi da allora – era il 1988, lei aveva 28 anni e un diploma al Centro sperimentale di cinematografia – ha imparato a fare i conti. L’ultimo suo film, Il colibrì tratto dal romanzo di Sandro Veronesi, uscito il 14 ottobre scorso, si sta avvicinando ai 3 milioni di euro di incasso, un risultato prodigioso vista la crisi della sale.
Non tutti sanno che lei ha esordito come attrice, nel ruolo di Ottilia ne «Le affinità elettive» di Gianni Amico.
«Ero giovanissima. Avevo 16 anni, ne ho compiuti 17 sul set, il regista Gianni Amico era il mio tutore. Sono stata molto in imbarazzo, mi rendevo conto che non ero brava. Ottilia era un’immagine, serviva quello: una ragazzina acerba come ero io, tutta in sottrazione».
Nessun rimpianto per quella potenziale carriera?
«No, non sono capace di recitare. Ma sono felice di quell’incontro, con quelle persone che mi hanno fatto capire cosa fosse il cinema. Sono figlia di genitori separati, mio padre non sapeva cosa fare con i figli e ci portava a vedere di tutto, anche Antonioni. A volte mi addormentavo in sala. Crescendo, ho affinato il mio gusto, mi piaceva per esempio il cinema di Polanski. Sono sempre stata una grande lettrice ma non avevo capito che cinema e romanzo avessero la stessa dignità. L’ho capito su quel set».
Padre urbanista e madre poetessa, in famiglia nulla che riconducesse al cinema. Come ci è arrivata?
«È stato casuale. Ero seduta sui gradini della Chiesa di sant’Ignazio con i compagni di classe e gli amici. È passato Marco Melani, l’aiuto regista. Mi ha chiesto se volessi fare il provino. Sul set ho trovato Claire People come aiuto, la sceneggiatura era di Enzo Ungari, la costumista Lina Taviani. Sul set venivano Taviani e Bertolucci, ho iniziato così. Loro sono diventati i miei amici adulti, coetanei dei miei genitori ma legati a me. Poi ho recitato ancora. Sono andata a vivere da sola, con un’amica in un seminterrato in piazza Margara, andavano da Vezio, il barista di Botteghe Oscure. Facevo altri lavoretti, anche stupidi, comprese foto di moda, mi vergogno a dirlo».
Com’è arrivata al Centro sperimentale?
«Andavo tanto al cinema, ho visto tutti i film possibili, ero onnivora. E scrivevo soggetti, sceneggiature, film, sono partita in quarta. Ma non pensavo sarebbe stato il mio lavoro. All’università mi ero iscritta a Psicologia. Ecco, forse mi immaginavo psicologa. Ma scrivevo già da piccola, poesie. Gli anni del Csc sono stati i più felici della mia vita. Ancora non hai ancora un mondo fuori, è tutto lì. Si sono creati legami duraturi. Io per natura sono tendenzialmente monogama, anche nel lavoro. Ci sono legami che una volta stretti sono difficili da sciogliere».
Tipo?
«Per esempio con Paolo Virzì. Ogni volta che gli dai una scena la “paolizza”, sempre in bilico tra il grottesco, l’esagerato, il profondamente umano, mi sorprende sempre, tra parola scritta e messa in scena è sempre una sorpresa, come una realtà aumentata. Scrivere con lui mi piace moltissimo, così come con Francesco Piccolo, dico che è il mio super-io. Sono amici con cui mi confronto come con Esmeralda Calabria. E tanti altri che non sono nel cinema».
E Nanni Moretti. Sono serviti veramente dieci pranzi per convincerlo a recitare ne «Il Colibrì»?
«Sì. Ma avrei continuato con altri inviti, se necessario. Insiste nel dire che non è un attore ma io avevo proprio bisogno di lui per il ruolo dello psicanalista Daniele Carradori. Un tipo un po’ metafisico. Mi serviva desse tridimensionalità, che si portasse da casa la sua autorevolezza».
Che a molti incute soggezione, a lei no?
«Lo conosco da una vita, gli voglio bene. È un grande regista, è stato dolce, presente. È un uomo generoso. Lavorare con lui è stato semplice. Quando ho iniziato con questo mestiere, per un genio come Nanni c’erano morettismi insopportabili. Ero incazzata con il cinema italiano, mi sembrava che ci fosse un mondo di storie da raccontare. Come insegnava Furio Scarpelli: gli sceneggiatori, diceva, dovevano fare la spola tra la biblioteca e il set. Amo il cinema letterario».
E infatti ha trasformato in film il premio Strega «Il Colibrì».
«In letteratura è permesso parlare del mondo borghese, cosa che al cinema ha quasi perso la legittimità. Io ho sempre avuto questo stigma, già da Mignon è partita. Sembra che occuparsi di certi mondi sia meno importante. La cosa non esiste in letteratura, in nessuna epoca, attraverso ogni classe sociale che conosci e racconti arrivi al cuore della sostanza, in questo c’è l’uguaglianza, gli esseri umani sono tutti uguali e tutti diversi. Ognuno ha il suo ambito narrativo. E nel libro di Sandro mi sono sprofondata in un mondo che è il mio. Dove le relazioni non sono mediate dal denaro perché non è una preoccupazione. Come l’ha analizzata Balzac. Marco Carrera è un tratto maschile molto originale, uno che sta fermo e si occupa degli altri, cerca di fare bene e provoca disastri».
Da regista ha avuto brutte esperienze con i suoi attori?
«Mai. Mi baso su un principio semplice: devono essere giusti per il ruolo, devo sentire che si fidano, che sono capaci di abbandono, perché io sono capace di abbandono con loro».
A tavola con Moretti
Per convincere Nanni a recitare ne «Il Colibrì» ci sono voluti dieci pranzi... Lo conosco da una vita, è sempre stato dolce, presente È un uomo generoso
Non le piace essere al centro dell’attenzione?
«No. La persona che invidio di più al mondo è Elena Ferrante. La stimo come scrittrice e la ammiro come essere umano. Se avessi saputo mi sarei messa il cappuccio in testa. Non mi paragono a lei, è bravissima. Ma invidio idea di poter avere la tua vita, mantenere la tua identità nascosta, non essere condizionato da come gli altri ti vedono. Siamo delle spugne che vanno al supermercato, prendono autobus, frequentano amici, esplorano il mondo. Farlo sotto mentite spoglie è il massimo».
È stata una bambina e ragazza felice?
«Difficile da dire. Ho avuto infanzia e adolescente vivida a tinte forti, piene di conflitti, la mia era una famiglia terrificante, litigiosissima. Tutte le domeniche finivano in liti tra figli, fratelli, fratellastri, mogli, mogliastre. Quello che ho patito della famiglia era l’enorme conflittualità, anche mia madre con suo padre, mio padre con sua madre. Tutti litigavano e io mi ero sempre fatta gli affari miei. Mi riconosco in una personaggio di Cani neri di Ian McEwan».
Ovvero?
«Lui che andava nelle case altrui e diventava il beniamino delle famiglie dei suoi amici e pian piano si irritavano. Io facevo così. Ero il paguro che andava nelle famiglie degli altri, se erano amici le madri volevano che mi fidanzassi, se erano amiche non mi volevano più perché mi portavano a esempio. Andavo a dormire a casa di amici, ci restavo due o tre giorni».
Nel suo cinema ha pescato anche dalle vicende familiari, se l’è mai presa qualcuno?
«Siamo sei fratelli di tre madri diverse, se ognuno facesse un corto della stessa cena, sarebbero sei film diversi. È materia, certo, ma non sono mai troppo diretta, elaborazione e invenzione mescolate».
Monogama nel lavoro e anche nell’amore. Con suo marito Battista Lena, musicista, state insieme da una vita.
«Non è facile, anche noi siamo stati sul punto di lasciarci, non è avvenuto perché è impossibile, però bisogna rigenerarsi, passare attraverso scorticamenti. Ci siamo conosciuti al liceo, lui è il figlio di Carla Lonzi. Alla festa dei suoi 16 anni noi intorno al tavolo a festeggiare, lei è arrivata chiedendo: di chi è compleanno? Lui tranquillissimo ha riposto: mamma è il mio. Poi gli ha regalato la chitarra che sognava. Da loro nessuno litigava, erano una famiglia con pochi conflitti, molto libertari, l’accettazione per la madre enorme. La mia è stata malata tanti anni, noi siamo cresciuti con l’assassino dentro casa. Era giovane, non voleva morire, si era finalmente pacificata. La vita, a volte, è un’ingiustizia».
Avete tre figli, cosa fanno?
«Cose diverse da noi. Uno è in Cina, uno in Germania, una a Londra. Mi sembra che siamo riusciti a comunicargli che ci sono tante cose interessanti al mondo».
Lei è notoriamente di sinistra. Cosa pensa del governo Meloni, prima premier?
«Cosa mi cambia se è donna o maschio, se ha un programma contrario ai miei valori? Mi posso rammaricare per quello che la sinistra non ha fatto, certo. Io personalmente voglio fare opposizione. Nel mio piccolo combatterò con tutte le mie forze perché questo Paese non torni indietro in quello che credo, nel progresso, nella giustizia sociale, nei diritti. Mi sembra che ci sia un programma chiaro di ignorantizzazione. Ma più sei istruito e più puoi difenderti da idee che hanno scartamento ridotto».
A che punto è la serie da «La storia» di Elsa Morante?
«Manca poco alla fine, abbiamo iniziato sei mesi fa. Sono felice, è un progetto importante».
Mai senza cerchietto. Cos’è: un vezzo, una coperta di Linus?
«Un’abitudine: non so come tenere i capelli, sono lisci. Non sono gli occhiali bianchi di Lina Wertmuller, per capirci. Poi me li regalano in continuazione, i figli, il marito, gli amici. Ormai ne ho collezioni stratosferiche».
Quando non gira che fa?
«Vado nella nostra vera casa, in Toscana, lì tengo quasi tutti i miei libri. Dove ho una bella coltivazione di rose, c’è grande legame tra scrittura e giardino, da Virginia Woolf a Pia Pera. Lo sfogo è la fatica fisica, zappare, mettere mani nella terra. Ho una passione: costruire i muretti a secco. Se trovo un bel pietrone non resisto».