il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2022
Intervista a Niccolò Fabi
“Mi sono reso conto di quanto sia difficile autorizzarsi a star bene dopo una sofferenza, una separazione di qualsiasi tipo. C’è una parte di noi che rimane fedele a quel dolore per non togliergli importanza. Perdonarsi, concedendosi di andare oltre, è faticosissimo, può diventare una condanna. Ma allo stesso tempo è la necessità di sopravvivere”. Per parlare con Niccolò Fabi bisogna schermarsi, ascoltare il flusso di emozioni che la sua voce trasmette e la “materia scottante” su cui si basa la sua musica (che altro non è che la vita stessa), e poi lasciar sedimentare le parole, per metabolizzarle, elaborarle e poi sputarle fuori in una sorta di catarsi. E così, a tre giorni dall’uscita del suo “Meno per meno” – un album con quattro brani nuovi, due dei quali totalmente inediti, e 6 vecchie canzoni riarrangiate con l’Orchestra Sinfonica Clandestina del Maestro Enrico Melozzi –, la conversazione assume le sembianze di una seduta di terapia. Più o meno ciò che accade nei suoi concerti. Ed è da qui che partiamo, dalla data spartiacque del 2 ottobre, quando Fabi ha suonato, per la prima volta in solitaria, all’Arena di Verona per festeggiare i 25 anni di carriera. Un uomo solo, per tutta la prima ora dell’evento, davanti al suo pubblico.
Appena salito sul palco, di fronte a un applauso scrosciante, la prima parola che ha pronunciato è stata “Eccoci”. Qual è stato il primo pensiero, invece?
Avevo immaginato di dire una cosa, ma poi quell’applauso mi ha sconvolto, perché è arrivato prima che io potessi emettere una singola nota. Un ringraziamento non per il concerto, ma per tutto quello che è successo prima, la dimostrazione di quanto i miei brani facciano parte della vita di chi mi ascolta. E, visto che ho scelto di raccontare le parti più intime, dolorose, spesso legate a una svolta, non sono canzoni che ricordano un’estate, ma accompagnano momenti complessi della vita delle persone. Questo credo sia il motivo della vicinanza.
Il Maestro Melozzi, che con l’Orchestra l’ha accompagnata nella seconda parte del concerto, è rimasto stupito dal suo pubblico, che le assomiglia. Che rapporto ha con la sua “Fabiglia”?
È per me molto emozionante ascoltare le parole, anche smozzicate, che mi rivolgono. Ormai riconosco dallo sguardo di una persona che mi dice una cosa perché me la sta dicendo, ogni tanto individuo il riferimento a un brano dall’intensità di uno sguardo. A volte l’invasività dell’emozione altrui è talmente forte da dovermi proteggere, perché è un carico troppo pesante. Sono botte emotive che devo riuscire a controllare perché se no mi fanno ondeggiare troppo. Ripeto: non parliamo di canzoni che t’hanno svoltato una serata o del complimento per un disco. È una materia scottante.
La vigilia dell’uscita dell’album le mette ansia?
Ovviamente sì, anche se questo disco non rappresenta un nuovo capitolo della mia produzione autorale, per quanto abbia quattro brani nuovi. Nasce per testimoniare qualcos’altro: se non ci fosse stata Verona, non ci sarebbe stato il disco. Quelle canzoni sono state scritte negli ultimi anni, senza l’album magari avrebbero dovuto aspettarne altri 50. Però sono contento, perché in fondo sono legate a questo periodo storico.
La sensazione rispetto ai brani riarrangiati – mi riferisco in particolare a “Costruire” o “Solo un uomo” – è che risultino meno intimi ma più corali. È una lettura corretta?
Le sensazioni non sono discutibili. È sempre delicato toccare canzoni che hanno avuto una storia dentro l’ascoltatore. La mia caratteristica è sempre stata quella di creare un filo diretto, intimo, con chi mi ascolta e di certo l’orchestra non è intima: allarga, enfatizza, rende meno privato il rapporto. Qualcuno potrebbe vivere come violenta questa nuova veste. Qualcuno potrebbe, invece, vederci un panorama, diventando i brani corali, collettivi. È un rischio che volevo correre per regalare una cosa diversa.
A proposito di diversità, negli ultimi anni lei ha sperimentato molto: dapprima l’elettronica (in “Tradizione e tradimento”), adesso l’orchestra. Se si guarda allo specchio, si vede coerente?
Il provare a cambiare è stata un’esigenza mia di dare dinamica a ciò che faccio, di non adagiarmi. Ma la mia identità è costituita dalla mia voce e delle mie parole: ci puoi mettere intorno quello che vuoi, cambia poco. Le cose hanno un colore di fondo che rimane sempre lo stesso. E l’avere un’identità così precisa è una forza, ma può essere anche un limite. Mi piacerebbe giocare di più, ma davvero, non con i suoni. Però quando una cosa ti viene bene, hai voglia a tradimento: sono più di tradizione, e me lo dico con orgoglio.
Del resto non credo che i suoi ascoltatori si aspettino cose diverse da lei…
Gli ascoltatori hanno a disposizione talmente tanta musica che alla casella Niccolò Fabi metteranno un certo tipo di aspettativa, una certa atmosfera. Immagini il mercato musicale come un immenso supermarket, dove per ogni corsia trovi un determinato tipo di artista. Se vai alle acque minerali e trovi le batterie per auto rimani interdetto: magari qualcuno direbbe finalmente, altri penserebbero che se vogliono ascoltare musica dance con la voce di Fabi allora è meglio ascoltare direttamente Cosmo, per esempio, perché lo fa meglio lui. E se Cosmo esce con un disco chitarra e voce, magari preferisco sentire Damien Rice.
Veniamo alla materia scottante. Nei nuovi brani parla ancora d’amore ma anche dell’istinto di “rimanere sotto le lenzuola perché il giorno fa paura” (“L’uomo che rimane al buio”). Amare è doloroso, eppure non si può vivere senza. Quanto coraggio ci vuole per vivere? È più sicuro nascondersi?
È uno degli aspetti determinanti dell’esistenza. Da una parte c’è il desidero di vivere percependo tutte le grandi vibrazioni, dall’altra la tentazione di astrarsi per non rischiare, di rimanere in un rifugio antiatomico o in quei posti dell’anima che sono confortevoli. E ciò si applica a ogni sfera della nostra vita, da quella sentimentale a quella professionale. Quel brano è stato scritto durante il lockdown, luogo di costrizione fisica e psicologica, massima espressione della paura di uscire e trovare il mondo peggiore.
Cosa che in effetti è accaduta… Per questo lei canta anche “qualcuno prima o poi dovrà spiegarlo che era sbagliato andare avanti e che si può tornare indietro” (“Al di fuori dell’amore”). Sì, ma come?
Io sono un cantautore, non un risolutore: pongo domande, per cui qualsiasi soluzione possa suggerire che esula dall’aspetto emotivo lascia il tempo che trova. Come si fa a invertire la rotta di un treno ad alta velocità che si va schiantando contro un muro? È difficilissimo rispondere. Però posso dirle che considero molto più pericoloso il pragmatismo di chi pensa sia un destino ineluttabile – perché il mercato domina le nostre vite, la politica è in mano all’economia… – rispetto all’ingenuità di chi pensa di poter avere un ruolo attivo.
Servirebbero gli intellettuali per suggerire come poter tornare indietro, ma francamente non ne vedo al momento…
Magari i grandi pensatori ci sono, ma il linguaggio non è più quello dell’approfondimento. Come si fa a intercettare l’attenzione delle persone per esprimere un pensiero articolato che non sia una breve provocazione?
Nei brani nuovi torna spesso il concetto di “perdono”. Qual è il valore che gli attribuisce?
Le racconto una cosa che mi ha colpito subito dopo l’uscita di “Andare oltre”. Una persona a me cara ha sentito quel brano molto vicino, perché tra i versi risuonavano le parole pronunciate dal suo compagno poco prima di morire, dopo 30 anni di vita insieme: “Datti la possibilità di essere felice dopo di me”. Perdonarsi significa autorizzarsi ad andare al di là del ponte, a non morire insieme a una persona o anche a un progetto.
Una provocazione. Sempre in “Al di fuori dell’amore” lei chiede e si chiede: “Quanti di noi fanno la vita che hanno scelto?”. Si rende conto che sta parlando di un privilegio?
E infatti mica ho detto “codardi”! (ride) È una domanda: chi ha avuto la fortuna di vivere la vita che voleva? Chi è stato travolto dal destino? Chi avrebbe potuto fare e non ha fatto? Ci sono tutte le variabili.
Niccolò Fabi, quanto fa “Meno per meno”?
È una banalissima moltiplicazione che fa più. Non è detto che di fronte alla negatività il risultato sia negativo. Ed è ciò che spero di ottenere con la mia musica: la negatività amplificata delle mie canzoni più risolversi e diventare positività.