Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  novembre 27 Domenica calendario

Su "Meadowlands" di Louise Glück (il Saggiatore)

«Ripercorrere la fortuna di Ulisse nella letteratura universale è impresa immane e disperata», annota Maria Grazia Ciani nel suo Tornare a Itaca (Carocci, 2021): «Egli è dovunque, nella poesia, nella letteratura, nella pittura, nella musica». Quindi, dopo aver ricordato alcuni autori che lo hanno reinventato e rimandando ai libri di Piero Boitani sull’argomento, conclude: «L’Ulisse di Omero, però, è sparito per sempre».

Già, da Dante a Pascoli, da Tennyson a Kazantzakis, da Borges a Tonino Guerra, Odisseo ha assunto volti differenti e la materia della sua Odissea è stata rinarrata in molti modi, da punti di vista dissimili e lontani. Non ultimo, quello femminile. Prima di Margaret Atwood, autrice nel 2005 del fortunato Racconto di Penelope (nel titolo originale The Penelopiad), ci sono stati altri tentativi in questa direzione: agli inizi del Novecento, ad esempio, Gabriel Fauré scrisse l’opera lirica Pénélope, su libretto di René Fauchois, riservando un ruolo centrale alla moglie di Ulisse, nei secoli simbolo per eccellenza di pazienza e virtù (citata per questo anche da san Girolamo). Ma la reinvenzione degli autori, soprattutto moderni, non esclude nemmeno la fidata Penelope: ancora prima di Atwood si può leggere, per rendersene conto, la poesia di Ghiannis Ritsos La disperazione di Penelope, datata 1968, che a un certo punto recita: «Per lui, dunque, aveva speso vent’anni,/ vent’anni di attesa e di sogni, per questo miserabile/ lordo di sangue e dalla barba bianca? Si accasciò muta su una sedia,/ guardò lentamente i pretendenti uccisi al suolo, come guardasse/ morti i suoi stessi desideri. E “Benvenuto” disse,/ sentendo estranea, lontana la sua voce […]» (da Pietre Ripetizioni Sbarre, traduzione di Nicola Crocetti).

Il mito, insomma, è destrutturato, e non solo nell’Ulisse di Joyce, emblematico di tale processo, ma anche nelle riscritture e nelle variazioni che rimangono più vicine al nucleo originale. Ne fa fede, in modo lampante, L’ultimo viaggio di Giovanni Pascoli, compreso nei Poemi conviviali del 1904: Ulisse riparte, sì, da Itaca, fatto che nell’Odissea non è narrato ma esclusivamente profetizzato dall’anima di Tiresia nell’XI libro, solo che non va avanti, verso l’ignoto, come immagina Dante nella Commedia, ma torna indietro, sui passi del proprio peregrinare, scoprendo che tutte le avventure, le imprese, le conquiste non sono state che illusione, inganno, errore. Ogni epoca, ogni autore (si pensi per questo alla distanza che corre tra D’Annunzio e Pascoli) ha il suo Ulisse. E in molti casi, dopo Dante, snodo decisivo in direzione dell’Ulisse moderno, lo stesso motivo portante dell’Odissea, quello del nostos, del desiderio del ritorno, è messo in crisi: Ulisse è ansioso, anche dopo aver ritrovato Itaca, di viaggio, di conoscenza, di scoperta. E perciò riparte, come appunto nella grandiosa continuazione del racconto omerico realizzata da Nikos Kazantzakis con la sua Odissea.

Ci sono un po’ tutte queste componenti nella rilettura proposta dal premio Nobel per la letteratura 2020 Louise Glück in Meadowlands, libro pubblicato nel 1996 e ora in uscita nella traduzione di Bianca Tarozzi. La riappropriazione del tema da parte dell’autrice americana, dalla proverbiale asciuttezza di dettato e dalla forte carica autobiografica, è a sua volta spaesante per il lettore del testo classico. Per prima cosa nel libro di Glück — che martedì 29 riceverà il Premio LericiPea alla Carriera 2022 — i riferimenti alla vicenda dell’Odissea, che riemergono a brani, a lacerti, sono intervallati a resoconti su un ménage matrimoniale, il secondo dell’autrice, pieno di incomprensioni, di conflitti, di piccole contese, indagato con spietata esattezza, fino al divorzio. In modo convergente, la vicenda omerica è riattraversata, per lampi, come se si trattasse di un moderno romanzo familiare, in cui la lontananza del padre di famiglia è interpretata attraverso la lente del figlio, Telemaco, e della moglie, Penelope, registrando poi anche la voce di una delle figure femminili che lo hanno avvinto e trattenuto: Circe. Un primo effetto di dislocazione viene dunque dalla prospettiva: l’eroe è quasi sempre visto da altre o da altri, esaminato nella sua parabola, messo in discussione. Quando compare in scena Ulisse stesso, ciò avviene in terza persona (La decisione di Odisseo), ed è un Ulisse che si ritrova, dopo il ritorno a Itaca, davanti al mare, che lo spinge ancora verso il viaggio, verso la decisione di non fermarsi al luogo del ritorno, di non accontentarsi. Per il resto Ulisse è interrogato, visto agire e interpretato da occhi differenti e parziali.

L’altra componente decisiva nella riemersione della materia polverizzata dell’Odissea è rappresentata, nel libro di Glück, dalla chiave propriamente psicanalitica, che prevale sull’ordito narrativo. Penelope, Telemaco, Circe costruiscono un microcosmo in cui l’eroe è messo sotto analisi, inquisito, smascherato nei suoi moventi, mentre gli stessi parlanti rivelano le proprie pulsioni e angosce, il tormento della mancanza o del desiderio. Se il libro ha il suo attacco con la visuale di Penelope, è poi determinante il punto di vista di Telemaco, anche perché ingloba insieme l’eroe e la moglie (nonché i tradimenti di Ulisse, le altre donne), perché li legge da un altrove, demitizzando i percorsi e le logiche dell’uno e dell’altra. Dovendo pensare a un’epigrafe per la loro tomba, il figlio, che li ha subìti entrambi nella loro carica egotica, se non proprio narcisistica, vorrebbe ricondurli alla propria misura: «Il mio gusto è a favore/ della precisione senza/ chiacchiere; sono/ i miei genitori, e di conseguenza/ li vedo insieme,/ talvolta sceglierei/ marito e moglie, altre volte/ forze in opposizione».

Ma Glück non rinuncia neppure a qualche affondo per immedesimazione nella materia mitica: è forse dall’episodio del dialogo di Ulisse con il padre Laerte nel libro XXIV dell’Odissea, quando per garantire la sua identità l’eroe dice al genitore che gli alberi del frutteto che hanno intorno gli sono stati donati e nominati nell’infanzia dal padre, che l’autrice americana ricava questa scoperta: «Guardiamo il mondo una sola volta, nell’infanzia./ Il resto è ricordo». Variazione, ripresa miniaturizzata, riscoperta nel qui e ora; e ancora rilettura in chiave psicanalitica, decostruzione, interpretazione demitizzata. Per citare nuovamente le parole di Maria Grazia Ciani: «Il viaggio di Ulisse nel tempo non è ancora finito».