Corriere della Sera, 30 novembre 2022
A scuola con Claudio Magris
In uno splendido articolo uscito il 2 novembre scorso sul «Corriere», Paolo Giordano critica il diffuso e irreale luogo comune che parla di una società refrattaria a valorizzare gli studenti e gli studiosi migliori. Si tratta, a suo avviso, di una narrazione reazionaria che non corrisponde alla realtà e alla sua durezza verso tante persone, cui già la fatica di sopravvivere rende difficile vivere.
Sono cresciuto in un’epoca peggiore e, per qualche aspetto migliore dell’attuale. Peggiore perché certamente, nonostante gli enormi crescenti problemi che ci assediano da ogni parte, gli esclusi di allora erano tali non solo rispetto alla realtà, ma anche alle possibilità, alle speranze di un’esistenza dignitosa. Migliore perché lo studio, per chi poteva fruirne, era un’avventura più personale, un piccolo giro del mondo anche se il mondo era tanto più piccolo.
Una scuola, soprattutto per gli studenti delle medie e del liceo, può essere «magistra vitae» anche per le nuove realtà che offre agli studenti affascinati dalla nuova visione del mondo con cui vengono a contatto, quasi arrivassero da altri universi. Ma la scuola, di ogni ordine e grado, trasmette, dovrebbe trasmettere, anche valori e avventure umane, un’esperienza epica dell’incontro con tanti altri, che vengono magari da lontano ma sui banchi sono vicini e si trovano dunque a vivere parte della loro giornata tra porte e finestre più aperte.
Quando, a partire dalla seconda classe elementare, a Trieste, attraversavo il Giardino pubblico per andare alla Scuola elementare di via Giotto, mi pareva di attraversare un mondo, di confrontarmi, rispetto al cortile di casa, con altre leggi, avventure e paure. A scuola si imparava – io l’avevo già fatto un anno prima, con mia madre che era maestra, ma questa è un’altra storia – che quelli che sino a poco prima sembravano, sulla carta o sulla lavagna, sgorbi e linee senza senso, foglie sbattute dal vento, potevano diventare i nomi delle cose o dei pesci nello stagno fangoso e dunque le cose stesse. Era la prima grande esperienza che il segno non designa soltanto la cosa, ma è la cosa. Era la Genesi di un altro mondo, di un altro me stesso, che – fuori di casa e quindi anche uscendo da sé – imparava ad incontrare amici e talora pure nemici, giochi e guerre che s’intrecciavano e confondevano. Lo studio era un viaggio, ora affascinante ora noioso, fra numeri, parole, storie reali e immaginarie, non meno reali su un altro piano.
Per questo studiare non voleva dire e non ha mai voluto dire, in altri ben più complessi terreni, essere sgobboni. Ho studiato molto, specie al liceo, ma questo non ha appesantito quegli anni di fatica bensì li ha soprattutto accesi di risate, di scherzi, di scoperte del mondo alla rovescia. Sì, si studiava molto; certo, durante il tema in classe era moralmente doveroso e naturale – pur sapendo che i docenti avevano il diritto e il dovere di impedirlo – passare un foglietto al vicino o riceverne uno da lui. Forse anche per questo compagne e compagni di allora lo sono rimasti per sempre, amiche e amici non solo divenuti in certi casi maestri e studiosi assai notevoli di fisica, letteratura o matematica, grandi avvocati e medici ma anche compagni di cammino che hanno reso, pur fra tante tristezze ed errori, lieta e godibile la vita. Anche quelli che hanno già girato l’angolo per andare dall’altra parte sono con noi. Per questa nostra indistruttibile vicinanza fisica oggi mi è difficile immaginare che un’esistenza trascorsa continuamente «collegati» possa essere la stessa cosa, ma questo è un mio limite generazionale.
In ogni caso, tutto ciò non ha nulla a che vedere con la supponente puzza al naso di molti ex allievi di licei o atenei famosi che indossano la boria come un vestito a una cena di gala. È forse questa puzza al naso che talora dà l’impressione, girando fra i grandi centri di ricerca del mondo, di un’incredibile complessità di ricerche ed esperimenti ma anche di una ripetizione pur mirabilmente variata che conduce al trionfo dell’identico. Anni fa, durante un giro di lezioni, conferenze e presentazioni di libri negli Stati Uniti, sono stato all’Università di Yale. Mirabile sotto ogni punto di vista, faceva toccar con mano cosa siano gli Stati Uniti nella ricerca mondiale. A un certo punto ci trovammo davanti ad uno strano, grande edificio dallo stile difficilmente definibile, tempio e piramide dell’età post-umana. Era, spiegò il gentile professore che mi accompagnava, la sede della più importante associazione culturale di Yale della quale solo il presidente, di cui nessuno fece neppure il nome, aveva le chiavi. Insomma, sembrava irraggiungibile come a quel tempo Osama Bin Laden.
Ma che sollievo provai invece a Chicago, partecipando a un grande incontro promosso dalla sua università pubblica, con numerosi docenti e studenti di ogni ordine e grado e di diversa e varia origine. Mi sembrava di essere ritornato al mio liceo Dante di Trieste, in cui non c’era contrasto tra il reale, talora appassionato interesse per le grandi letture o le dimostrazioni matematiche, il rispetto conviveva con lo scherzo e talora con l’arte di copiare e le sue dovute variazioni. Lo studio come serietà e come gioco.
In Italia il Sessantotto, che doveva fare la rivoluzione, ha contribuito a costruire la società attuale, nel bene e nel male, come aveva visto e denunciato Pasolini. Durante i molti anni in cui ho insegnato Letteratura tedesca all’università di Torino c’è stato pure il periodo messianico dell’esame di gruppo. Nel nostro istituto di Germanistica si organizzavano nuclei di studenti che affrontavano per qualche mese un tema, sul quale alla fine stendevano una relazione comune, firmata da ognuno dei partecipanti – quella su Kafka e la letteratura praghese, ad esempio, è diventata un capitolo di un mio libro, ovviamente con i loro nomi. Diverso è stato il caso di uno studente, mai visto durante le lezioni e le esercitazioni, che si è presentato da solo dicendo, senza specificarlo meglio, che «portava» l’esame di gruppo.
Sono in pensione da molti anni e non posso esprimere alcun giudizio sulla scuola, sull’università (tanto meno quella digitale), sulla ricerca in quanto ascensori sociali, anche perché ogni problema finisce per invertire, direttamente o di rimbalzo, la realtà intera e i suoi caroselli. Mi viene in mente Brecht che racconta la storia di uno scolaro alquanto scadente, che aveva trovato un sistema per convincere i suoi insegnanti ad alzare i voti dei suoi «elaborati», come si diceva allora. Gli insegnanti, correggendo i temi, tracciavano un segno rosso su ogni errore e li riconsegnavano agli studenti affinché ne prendessero visione. Lui aggiungeva, di suo pugno, altri segni rossi, del tutto simili, su parole e frasi in cui non c’era alcuno sbaglio e poi andava a chiedere ai docenti di spiegargli quale errore aveva commesso. Loro non li trovavano e allora, pensando di essersi sbagliati – nella fretta, nella distrazione – cancellavano il segnaccio ingiustificato e si sentivano in dovere di alzare il voto complessivo.
In ogni caso, migliorando artificiosamente il voto, quei professori contribuivano, sia pure in misura modesta, a fare del buon rendimento scolastico un «ascensore sociale».