la Repubblica, 30 novembre 2022
Un museo per Bodoni
Il suo lavoro era il nero untuoso dell’inchiostro tipografico. Ma il suo lusso era il bianco della pagina: quella abbondanza di margini enormi, di spaziature rarefatte, quell’abbagliante sfarzoso scialo di carta che contrastava con le fittissime avare pagine dei suoi predecessori. Giambattista Bodoni detestò fin da ragazzo quelle “opere di sordida economia”, quei libri “maneschi e di picciol prezzo”, i tascabili di allora, che finivano in mano al volgo. Lui si ripromise che avrebbe stampato solo magnificenze, fin da quando, rampollo di tipografi piemontesi di Saluzzo, era finito apprendista a Roma alla stamperia della Propaganda Fide. E lo fece. A guardarli oggi, nelle vetrine del nuovo museo che porta il suo nome, quei poderosi in-folio, quei frontespizi maestosi come epigrafi, fanno ancora meraviglia.
A Parma si sono convinti che, due secoli e dieci anni dopo la morte, la fama del grande concittadino adottivo, che allora fu internazionale, si fosse un po’ spenta. Allora l’hanno letteralmente tirato giù dalla soffitta, spostando il suo storico museo (il primo in Europa nella storia dell’arte tipografica) dall’ultimo piano della possente Pilotta (complesso molto complesso di istituzioni culturali di cui è in corso la riqualificazione) al piano terra, in sale molto simili a quelle in cui, nel 1768, quel promettente uomo di carattere era stato invitato dal duca di Parma Ferdinando ad aprire una stamperia di stato, per poi proseguire come impresa privatadal1790.
Inaugurata ieri, narrata dal meglio degli 80 mila oggetti originali (punzoni, matrici, attrezzi, torchi, scatole, mobili), ecco dunque la storia “del visibile passaggio dalla materia alla forma”, dice con bella sintesi il direttore della Pilotta Simone Verde, ideatore del nuovo allestimento assieme al direttore scientifico della Fondazione Museo Bodoni, Andrea De Pasquale. È la storia di come il pensiero, “passando attraverso il lavacro catartico del lavoro manuale”, si depositò sulla morbida candida superficie che lo conserverà nei secoli. Sì, perché quello che fece di Bodoni un unicum nella sua stessa arte fu proprio la sua padronanza personale, perfino gelosa, di tutti i passaggi tecnici, manuali, artigianali della filiera del libro, dal disegno delle lettere fino alla rilegatura. Sapeva, di mano sua, inventare le forme degli alfabeti, inciderle nel metallo, ricavarne stampi e poi caratteri, sapeva allinearli divinamente sul “vantaggio” e poi collocarli sotto il torchio, sapeva stamparli senza sbavature, sapeva fasciare i ltutto nelle sue copertine color ocra etrusco.
Ma noi oggi lo ricordiamo perché, appunto, ebbe un carattere. Unico, inconfondibile. “Il Bodoni”. Aste ascendenti spesse e nerissime, capitelli orizzontali sottilissimi, curve piene, angoli netti. La sua versione dei caratteri epigrafici latini segnò la morte definitiva della tipografia umanistica ancora debitrice dell’aspetto calligrafico delle parole; la sua impaginazione via via sempre più essenziale, già un modernista less is more, segnò la fine del barocchismo dei filetti, degli orpelli e delle cornici. La pura essenzialità delle lettere, ordinate in “rette e uguagliatissime linee”, era per lui sufficiente a garantire il risultato estetico. Scrisse: “Quanto più un libro è classico, tanto più sta bene che la bellezza dei caratteri vi si mostri da sola”.
Vero homo tipographicus, i suoi caratteri piacquero a un editore esteta come Franco Maria Ricci, che mai li tradì, ma anche al profeta cibernetico Steve Jobs, che li volle riversare nei font elettronici del primo Macintosh. Qualcosa di quella maestosità atemporale ha colpito anche i designer di grandi brand commerciali: le griffe di Valentino, Vogue, Lancia sono composte in Bodoni.
Ultimo degli antichi o primo dei moderni? “Antico. Grandioso, ma antico”, è il giudizio di Verde. Visse, il grande fonditore, in un’epoca di rivoluzioni. L’America si ribellava, in Francia si decapitavano ree regine. Ma nella pétite capitale, il sommo tipografo non smise mai di confezionare libri per papi e sovrani, per i potenti del vecchio e del nuovo mondo, per i “principi degni della riconoscenza degli uomini” a cui dedicò il suo celebratissimo manuale di tipografia. Riceveva ordini, visite e onorificenze da Napoleone, dai Borbone, i duchi parmensi gli garantirono l’esenzione dalle imposte e un’arca che ne attese le spoglie in Duomo. Non era un ingenuo, Bodoni. Pubblicò tre Bibbie, classici greci e perfino arabi, fu editore di Alfieri, Pindemonte, Parini, Monti. Tutto il suo catalogo è ora sfogliabile virtualmente su un grande tavolo-schermo nel museo. Ma sapeva lui per primo che le sue splendide creazioni avrebbero vissuto una vita “più di lusso che d’uso”, che i suoi libri sarebbero stati esibiti ed ammirati ma assai poco letti, gioielli di carta e inchiostro destinati al prestigio aristocratico.
Quando Bodoni morì, nel 1813, celebre e riverito, da pochi anni uno stampatore praghese aveva inventato la litografia, che trasferiva il disegno sfumato e policromo del pastello sulla pagina stampata. Entro pochi anni, un imprenditore di Parigi avrebbe inventato la fotografia. Il destino dei media, disse McLuhan, è di emanare i bagliori più sontuosi nel momento in cui stanno per essere rimpiazzati da nuovi arrivati. La civiltà o inciviltà delle immagini era già pronta a sfidare il millenario regno della parola scritta, a creare una iconosfera in cui mai più la lettera avrebbe dominato da sola la pagina bianca del pensiero. Ma a Parma, un artigiano sublime mai tradì il suo motto: “Io lavoro per cose sublimi, non per la volgarità”.
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