La Stampa, 30 novembre 2022
Biografia di Alberto Mondadori
«Una grande storia d’amore senza lieto fine» è quella che racconta Sebastiano Mondadori (Milano, 1970), nel farsi biografo del nonno Alberto (1914-1976) e del suo tormentato rapporto con il padre Arnoldo, fondatore della dinastia. Un dramma, Verità di famiglia (La Nave di Teseo), che potrebbe anche intitolarsi Padri e figli, tanto è emblematico, perché questo è il nodo irrisolto dell’intera vicenda. Arrivato ai cinquant’anni, Sebastiano fa i conti con il mito enigmatico che coltiva sin da bambino, proponendosi l’obiettività dello storico che ha potuto pescare negli archivi famigliari, nelle lettere e nei ricordi della madre Nicoletta. Nulla di sentimentale o elegiaco, ma semmai una coraggiosa calata nel mistero di una vita allo sbaraglio, che non nasconde i tratti caratteriali di «un principe che non diventerà mai re». In famiglia come in azienda, si è imputato ad Alberto di essere uno spendaccione, un inconcludente, un alcoolista depresso che si inventa poeta e mecenate per assecondare i suoi deliri di onnipotenza, uno che intende la vita come una disperata campagna di conquista («O con me o morte») e non conosce l’ironia. Un Gargantua librario sempre alla ricerca ansiosa dell’approvazione paterna che non può arrivare, perché questo figlio fuori scala è la vivente smentita di un buonsenso padano che porta ancora addosso l’odore dell’antica povertà.
Il primogenito Mondadori, l’erede designato, è l’uomo della dismisura, affamato d’assoluto e di grandeur, elegantissimo bulimico avvolto nei cashmere e in una nuvola di tabacco e di Chanel n. 2, che divora libri, viaggi, incontri, sfide, costruisce residenze sontuose (la villa hollywoodiana di Camaiore che Arnoldo tanto disapprova, teatro di sontuosi ricevimenti), danza sull’abisso e si autodistrugge con il troppo whisky. Un Edipo megalomane che si propone come sovrano illuminato, ma pecca di un autoritarismo che sfocia in gesti di inspiegabile durezza, come quando licenzia senza una spiegazione plausibile i già amatissimi Giacomino Debenedetti e Remo Cantoni, vere colonne di un progetto editoriale che, pur utopico, ha coinvolto con loro grandi intelligenze: Paci, Argan, D’Amico, Di Martino, Bianchi Bandinelli, tra i tanti.
Eppure «Arbreto», come lo chiama il padre nei momenti di tensione, ha molti talenti. Ha una cultura vera e profonda, che va dalle scienze umane alla musica e all’arte, è un lettore curioso e infaticabile, ha un’istrionica capacità di relazione (le amicizie veraci con Thomas Mann, Faulkner, Hemingway, Sartre, Simone de Beauvoir, Orson Welles, Kerouac, Guttuso, Palazzeschi, Garboli, Lattuada, il cugino Mario Monicelli). Negli Anni 30 si cimenta a Roma con il cinema, ma l’ambiente, dominato da ambigui faccendieri, lo disgusta. Passa al giornalismo e fonda testate innovative sul modello americano (Tempo ed Epoca). Nel dopoguerra porta in Mondadori grandi autori, ma non vuole sentirsi ingabbiato nella routine aziendale. Per lui l’editoria non può limitarsi a una questione di denaro (che peraltro deve chiedere al padre). Vuole dimostrare le proprie capacità di editore in proprio con l’impresa del Saggiatore (1958-1967), che ha l’ambizione di alzare l’asticella della cultura italiana con una sorta di raffinato «umanesimo scientifico». Impresa dai costi sanguinosi, tanto che la liquidazione diventa una scelta dolorosa e obbligata. Sarà l’unica sconfitta di Arnoldo, che pure le aveva provate tutte, commenta il nipote. Resta un catalogo superbo (poi rivitalizzato con bravura da Luca Formenton a partire dal 1993), per cui non si può negare ad Alberto, che morirà in solitudine a Venezia, a sessant’anni, la qualifica di grande editore. Tale lo riteneva anche Einaudi.
La materia è dunque quella di una saga famigliare ricca di elementi romanzeschi, un mix tra Balzac e Fitzgerald, con una spruzzatina di Shakespeare e di Dostoevskij. Sebastiano la gestisce con una scrittura alta e spesso poetica, da narratore capace di fissare in una riga il carattere di tanti grandi del ‘900. Ci sono Montale con il suo «sussiego impacciato», Ungaretti con la sua festosità piena di vita, Sereni dallo sguardo «segretamente puerile», Debenedetti «contegnoso nel suo doppiopetto abbottonato malgrado il sole cocente», Gatto con «il suo sorriso intriso d’astuzie», Tobino con la sua «mansuetudine all’erta». Sebastiano avvolge protagonisti e comparse di questa Spoon River editoriale con una pietas teneramente dolente e malinconica. Ci sono molti bambini, in questo dramma, insieme a intense figure femminili: la madre Nicoletta, costretta a dividere il suo affetto tra padre e nonni, la solida Andreina, moglie di Arnoldo, la bellissima, capricciosa Virginia, moglie di Alberto, ma anche certe fedeli e attivissime domestiche, che presto diventano parte integrante degli affetti famigliari. E c’è soprattutto una vivacissima stagione culturale che vista dalle pianure di oggi si impone all’ammirazione.
Forse il necrologio più appropriato di «Arbreto» lo ha scritto Giovanni Arpino: «Figura tragica che si poteva amare per come riusciva a dissipare se stesso, sempre nel doverismo e nella lacerazione di dover essere il grande editore, il mecenate, il poeta, l’esperto, il padrone e il fratello». —