La Stampa, 30 novembre 2022
Flavia Amabile s’è fatta massaggiare da una escort cinese in un centro a luci rosse
Il centro massaggi dà sulla strada. La porta è chiusa, per entrare bisogna suonare un campanello appeso su un lato. Siamo in via Francesco Caracciolo nel quartiere Prati. Via Riboty è a una decina di minuti a piedi. L’eco dei suoi omicidi si è spenta in fretta, l’industria del sesso a pagamento ha ripreso a macinare appuntamenti, i siti di annunci esplodono di inserzioni di nuovi arrivi di donne orientali, cinesi in particolare.Spingo sul pulsante, un suono lontano si diffonde nel locale. Alle mie spalle la cupola di San Pietro si staglia enorme sul fondo della via. La porta resta chiusa ma qualcuno aprirà di sicuro. Ho chiamato il pomeriggio precedente per chiedere un massaggio. Ha risposto una voce femminile in un italiano misto a cinese. Non ha nascosto lo stupore di ricevere la telefonata di una donna, mi ha dato l’appuntamento più innocuo che aveva, alle 9,30 di mattina, a inizio giornata quando nel centro non ci sono altri clienti.Dopo alcuni minuti, finalmente la porta si apre. Una signora mi fa entrare. Il suo volto non è quello dell’inserzione pubblicata sui vari siti di annunci di escort e sesso dove ho trovato il numero di telefono a cui mi sono rivolta. Né lo è il suo fisico. Lei avrà almeno una ventina di anni in più delle donne esibite per acchiappare clienti. In genere a questo punto gli uomini iniziano a lamentarsi, per loro la corrispondenza tra foto e persona incontrata è il primo dei requisiti richiesti. Gli altri sono il prezzo, il tipo di prestazioni offerte, il luogo. Ognuno di questi requisiti viene sintetizzato da una sigla e inserito in una scheda di valutazione che viene pubblicata sui siti, come in un Trip Advisor del sesso a pagamento.Io le sorrido e la seguo in questo scantinato senza finestre. La donna racconta di chiamarsi Nadia, ha appena terminato di passare lo straccio e di pulire il bagno, il pavimento è ancora umido. Passiamo davanti a tre stanze-sgabuzzino. Entriamo nell’ultima, luci rosse, specchio, una doccia, un lavandino, un letto con un lenzuolo di carta, un attaccapanni per i vestiti. Sollevo lo sguardo, la parte superiore della parete che dà sul corridoio è aperta. Se accadesse qualcosa di strano nella nostra stanza, si saprebbe subito.La prima domanda tradisce il nervosismo di Nadia. «Puoi pagare in anticipo?». «Meglio alla fine», rispondo. Nadia si rassegna ed esce un istante. Dopo qualche secondo le note di una band cinese si diffondono nell’aria, io ne approfitto per scattare delle foto e attendo. Quando Nadia ritorna, mi fa spogliare e stendere. Parte dalla schiena, si mette a cavalcioni, si strofina, prova a capire che cosa voglio da lei. Non sto cercando sesso. Non le dico che farei volentieri a meno anche del massaggio. Sono qui, in un centro a luci rosse, per ascoltare una delle circa 1500 donne cinesi che si prostituiscono a Roma secondo le cifre riportate in uno studio realizzato da Francesco Carchedi, sociologo della Sapienza. Sono le più lontane, le più irraggiungibili. Non lavorano in strada, soltanto al chiuso. Nessuno le incontra per caso, nemmeno le volontarie che ogni notte perlustrano le consolari per provare a convincere nigeriane e romene a liberarsi dalla tratta. Per capire chi sono e come vivono le donne cinesi che si prostituiscono, c’è un solo modo: bussare alla loro porta e sottoporsi a un massaggio.Lascio che continui a tormentarmi le spalle e inizio a farla parlare. All’inizio Nadia risponde a monosillabi, non è abituata alle domande, teme problemi. Insisto. Le chiedo dei figli, di Roma, del Colosseo, che ne pensa dell’Italia. Dopo una decina di minuti finalmente lei rallenta il massaggio, si siede sul letto e inizia a raccontare. Le frasi più semplici a voce, le altre digitando in cinese sul telefonino e mostrandomi la risposta di Google Translator. È arrivata in Italia una decina di anni fa, prima ha vissuto in provincia di Teramo poi si è trasferita a Roma. Non le capita di parlare molto, si scusa, non conosce bene l’italiano. Provo a chiederle che ne pensa di Roma, la grande capitale, il mito di tanti cinesi, i monumenti. Lei fa un gesto con la mano per dire che non le importa nulla, né della capitale, né dei monumenti. Cambio argomento. Parliamo di uomini, Nadia. Lei si illumina. «Gli italiani? A loro interessa solo il sesso. E poi i soldi. Gli italiani sono deboli. Con loro se sei furba puoi ottenere quello che vuoi», aggiunge facendo l’occhiolino. «E tu ci riesci? Gli italiani sono convinti che le donne orientali siano obbedienti, miti, arrendevoli», chiedo.«Gli italiani non sanno nulla di noi», risponde lei. Provo a farle dire qualcos’altro, vorrei sapere dei suoi incontri, ma lei elude con sapienza tutte le domande sul sesso. Tace sul racket, le mistress, l’organizzazione che l’ha portata in Italia e le ha permesso di aprire un’attività. Nega di avere clienti anche se gli annunci che portano al suo numero di telefono e al suo centro sono molto espliciti. «Gli uomini italiani sono identici ai cinesi», dice soltanto. Inizia a massaggiarmi un piede e si perde a pensare a quello che un tempo è stato il marito. «Era bello, ero innamorata, ci siamo sposati, abbiamo avuto due figlie. Poi, però, ha smesso di lavorare. All’improvviso non voleva fare più nulla, ero io a mantenere la famiglia. Ma io non ho studiato, mi arrangiavo con lavori da poco, vendevo cibo al mercato. Guadagnavo mille yuan, bastavano solo per mangiare». Un giorno lui ha anche provato a picchiarla. «Ho risposto lanciandogli addosso il primo oggetto che mi è capitato tra le mani e picchiandolo anche io. Era più basso di me, si è fermato. Da quel momento non ci ha più provato», racconta Nadia. Né lei gli ha dato modo di alzare di nuovo le mani. Le figlie crescevano, c’era sempre più bisogno di soldi. A una donna come lei la Cina della grande avanzata degli Anni Duemila non poteva offrire nulla. Allora, è partita per l’Italia. «Finalmente ho iniziato a guadagnare abbastanza e a mandare soldi alle mie figlie per farle studiare», spiega. Quando parla delle figlie il suo tono cambia: «Non le vedo da cinque anni. Tornare costerebbe troppo. Ieri era il compleanno di una di loro, abbiamo festeggiato in video». Davanti a uno schermo finiscono tutte le sue giornate. Dopo ore con i clienti torna a casa e accende la televisione o si collega con la Cina. Non c’è altro nella sua vita. Non è mai stata al Colosseo e nemmeno a vedere San Pietro che con la sua cupola fa ombra al palazzo. Non ha nessuno accanto né vuole qualcuno. «Un fidanzato? Sarebbe un terzo figlio da mantenere, ne ho abbastanza. Non mi importa l’amore, voglio solo far terminare gli studi alle mie figlie. Quando finalmente ci riuscirò potrò tornare in Cina. Quanto manca Nadia? «Non molto, per fortuna», risponde lei. Con un grande sorriso. —